La scienza infelice di Cesare Lombroso

ricerca a cura di Isa Ciani e Giuliano Campioni


"Ed è colla lietezza, con cui un adolescente va al teatro, che ei si avviava ogni mattina alle sue carceri, ed anche quando era malato, stanco, anche nei giorni più melanconici, le sue carceri, ebbero sempre il potere di ridargli la vita, l'eccitamento, la gioia."
(Gina Lombroso, Cesare Lombroso: storia della vita e delle opere, Bologna 1921, pp. 247-48)


La figura di Lombroso, da tempo presente nei manuali solo come mitico pioniere della moderna criminologia, e pesantemente vivo nella realtà delle nostre più repressive istituzioni, sta conoscendo una nuova fortuna. Da una parte è lo stesso movimento di lotta contro quel tipo di istituzioni che spinge a verificarne criticamente la genesi, dall'altra opera la volontà di riportare alla luce elementi del positivismo in cui la cultura non si presenterebbe in una sfera di separatezza ma come direttamente coinvolta alla risoluzione dei più drammatici problemi sociali.
Nella direzione di un completo recupero il contributo più sistematico e apparentemente più ricco viene dalla monumentale biografia di Luigi Bulferetti (C. Lombroso, Torino Utet, 1975). Merito dell'illustre studioso è quello di riportare alla luce, con il padre, anche la figlia Gina (senza peraltro quasi mai citarla). La dipendenza dalla biografia (Cesare Lombroso, Storia della vita e delle opere, Bologna 1921) piena di filiale venerazione per il genio paterno, è provabile senza molti sforzi: basta un confronto strutturale. In molti casi Bulferetti si limita a fare un riassunto, talvolta ripetendo espressioni ed interi giri di frasi. Pochi elementi aggiunge (soprattutto nella Premessa e nella rassegna bibliografica, utile anche se confusa) a livello interpretativo e del tutto discutibili, oppure ricavati dall'altra sua grande fonte, L'opera di Cesare Lombroso nella scienza e nelle sue applicazioni (Torino 1906), volume dovuto alla penna benevola o interessata di allievi e seguaci, in occasione del VI congresso di antropologia criminale, per imbalsamare accademicamente lo scienziato oramai perdutosi fra le nebbie "materiali" dello spiritismo.
Il giudizio che viene fuori dall'opera di Bulferetti è, nel complesso, piattamente apologetico (basti pensare alla linea diretta che unirebbe Lombroso alla tradizione dei Beccaria e dei Cattaneo, senza che venga colta la specifica, talvolta antitetica funzione ideologica dell'uno rispetto agli altri): rimane il segno della filiale venerazione per il genio tutto cuore del padre. Sia Ferrarotti nella recensione al Bulferetti su "Paese sera" (10/X/'75) sia Giacanelli nell'introduzione a La scienza infelice (a cura di G. Colombo, Bolinghieri Torino 1975) appaiono impressionati dalla mole ("documentazione ricchissima") del libro ed evidentemente dalla disinvoltura con cui l'illustre biografo di Lombroso si intrattiene con quel fitto mondo, oggi ricoperto dalla polvere, di medici, giuristi, sociologi, non solo italiani, che formavano il clima culturale della "scuola positiva". In realtà tale disinvoltura è frutto, prevalentemente, della consuetudine che la Gina Lombroso aveva con personaggi in varie forme legati al padre.
La scienza infelice, al di là delle indicazioni interpretative su cui torneremo, ha una sua decisiva forza in quanto ci ripropone visivamente il museo di Lombroso. La montagna confusa di teschi (p.76) già catalogati dall'"alienista della stadera" con cura, se non con tecnica esattezza anche a giudizio dei seguaci, impone, con la sua polvere, il senso della lontananza di quel mondo. Rimane, di tutti quei reperti e "fatti" probanti, nella moderna criminologia, solo il risultato, la scoperta, cioè, che il delinquente (il deviante) costituisce "una nuova infelicissima razza": la costruzione di uno stereotipo attraverso l'appiattimento del sociale nel biologico.
Questo, però, è sufficiente a far riconoscere, in Lombroso, in maniera pressoché unanime, il geniale pioniere dell'antropologia criminale. La rozzezza, il mucchio dei fatti portati a costruire una "scienza" che se ne diceva serva, prova ancor più l'immediata necessità di sicurezza che la classe dominante pretendeva come risposta. Risulta, come del resto anche dai Palinsesti del carcere (Torino, 1888), la sordità assoluta di Lombroso di fronte alla storia che ancor oggi tali reperti sanno raccontare con chiarezza.
Ne La scienza infelice la scelta delle immagini e il commento, spesso penetrante, sempre comunque sensibile al significato di classe e di miseria, forniscono una prima valida guida alla realtà del discorso lombrosiano.
Si è visto un elemento progressivo nella scuola positiva di diritto penale in quanto attenta alla figura del delinquente, più che al delitto come infrazione volontaria di una norma giuridica razionale e universale. In contrapposizione all'operare astratto della "scuola classica" quella positiva avrebbe ben individuato la sfera della difesa sociale, della totalità rispetto al singolo potenzialmente deviante. Le ambiguità di questo tentativo (con cui già Labriola fece i conti) emergono fin da una prima e breve ricostruzione teorica interna al quadro lombrosiano. Non ci troviamo di fronte ad una società sicura di se stessa e dei suoi valori per cui la deviazione e la degenerazione rappresenterebbero solo lo scarto di una macchina che funziona a pieno ritmo e quindi una indiretta conferma: siamo davanti ad un inquieto campo di forze che non suggeriscono una lettura univoca. Manca un ordine logico dato. La violenza appare come necessità: della società sul diverso e del diverso sulla società. Il darwinismo ha distrutto ogni salda certezza, l'uomo è l'animale selvaggio che una lunga, costrittiva educazione, può domare. La civiltà ha mutato solamente in superficie questo dato antropologico di violenza: l'equilibrio è sempre instabile, "sottile è la vernice della nostra civiltà" come mostrano le frequenti sommosse sociali "ma anche in tempo di calma lo studio dei costumi dei nostri popoli ci prova che malgrado le vicende e gli incrociamenti essi assai di poco variano dall'epoca barbara" (Il delitto politico e le rivoluzioni, Torino 1890, p. 7).
Seguendo Claude Bernard, siamo lontani dal considerare salute e malattia (e di conseguenza ragione-follia, onestà-criminalità tradotte in termini di fisiologia-patologia) entità astratte, ipostatizzate, in lotta per l'organismo. La differenza è solo di grado, di equilibrio di fattori. Lombroso si richiama anche su questo punto (come su molti altri) al quadro teorico della cultura europea più conservatrice che, dopo la Comune, cerca nella "scienza" lo strumento privilegiato per esorcizzare il furore popolare e le radici sicure per il proprio progetto di politica "sperimentale" in una pretesa sfera di neutralità.
In particolare il rapporto è direttamente individuabile con Taine: tra il francese e l'italiano correvano reciproci riconoscimenti di stima e di dipendenza. Leggiamo in Taine: la ragione è "un'acquisizione tardiva ed un composto fragile" "l'uomo è pazzo come il corpo è malato, per natura; la salute del nostro spirito, come la salute dei nostri organi, non è che un successo frequente ed un bel caso" negli spiriti superiori. "Quanto la ragione è zoppicante nell'uomo, tanto essa è rara nell'umanità" e non recita mai la parte principale: "questa appartiene ad altre potenze nate insieme con noi, e che, a titolo di primi occupanti restano in possesso dell'appartamento". L'uomo è essenzialmente animale, "da ciò deriva in lui un fondo persistente di brutalità di ferocia, di istinti violenti e distruttori". Questi non si manifestano in tempi normali, di qui l'illusione che tali passioni "si siano calmate, ammansite; vogliamo credere che la disciplina loro imposta è diventata naturale, e che a forza di scorrere fra due dighe, esse hanno preso l'abitudine di restare nel loro letto. La verità è che come tutte le forze brute, come un fiume o un torrente, esse non vi restano che per costrizione; è la diga che con la sua resistenza fa la loro moderazione" .
Le leggi, i codici, i tribunali sono meccanismi di violenza necessari per reprimere e controllare le forze selvagge della "bestia umana". "In fondo a tutti questi ingranaggi si vede sempre la molla finale, lo strumento efficace, voglio dire il gendarme armato contro il selvaggio, il brigante ed il pazzo che ciascuno di noi racchiude, addormentati o incatenati, ma sempre vivi, nella caverna del proprio cuore" (Taine, L'ancien régime, trad. it. Boringhieri Torino 1961 pp. 342-47). Lombroso è influenzato da queste posizioni: da qui l'impurezza dello spazio occupato dalla giustizia nell'evoluzione storica, non più riflesso, come nei presupposti della "scuola classica", di un ordine, bensì strumento per imporlo come equilibrio sia pure instabile e dinamico ("io ho potuto dimostrare nel mio Uomo delinquente che moltissime delle pene contro i delitti, non erano a loro volta, che nuovi delitti..."La funzione sociale del delitto, Palermo 1896, p. l 87 )
Frutto di questo equilibrio è la norma, ogni volta feticizzata e fermata, ma non ci sono certezze, solo paure. Il fondamento psico-biologico è la categoria del misoneismo. Il misoneismo, primo strumento che garantisce la permanenza della vita e della forma, si riscontra ad ogni grado dell'essere, con un rozzo psicologismo elevato a visione metafisica del mondo. Al genio, al degenerato sono affidati gli elementi di rottura e di movimento. La semplicistica spiegazione biologica è propria dell'epoca: l'atrofia di certi organi e le tare fisiologiche di cui la mancanza di senso morale è espressione, fanno sviluppare eccezionalmente altri organi ed altre capacità. "Perciò io ho potuto dimostrare che l'uomo naturalmente, eternamente conservatore, non sarebbe progredito mai senza il combinarsi di circostanze straordinarie che mettevanlo nella necessità di superare il dolore della novazione per confortare altri più grandi dolori, e della comparsa di alcuni uomini singolari, come i pazzi di genio e i mattoidi, che per la anomala organizzazione avendo un esagerato altruismo e un'attività cerebrale superiore di lunga mano a quella dei contemporanei, precorrono gli eventi, trascinano alle novazioni, senza pensare al proprio danno, il pubblico che se ne vendica non dirado col sangue, e fanno come gli insetti che col volare da un fiore all'altro trasportano un polline, cui occorrerebbe molto tempo e molti turbini per riescire fecondo" (L'uomo delinquente, Torino 1889, vol. I, p. 67). Non ci sembra quindi che in tal caso sia presente nel criminologo "l'ossessione della diversità" (cfr. A. Pirella, Prefazione a L'uomo di genio, Roma 1971, p. XVI) e addirittura "la paura" (Giacanelli, cit. p. 27) verso il genio, questa fragile e estrema produzione della natura, inserito nel quadro di una patologia divenuta visione del mondo, c'è piuttosto la stupita, nascosta, quasi estetica ammirazione piccolo borghese per il diverso che garantisce con la sua eccezionalità il normale, quotidiano andare delle cose.
Si deve leggere piuttosto un certo disprezzo per "il vero uomo normale": "non è nemmeno colto, non è nemmeno erudito, esso non fa che lavorare e mangiare--fruges consumere natus". (L'uomo di genio, cit. p. 7). Certo neppure Lombroso può sentirlo come un modello. Non bisogna dimenticare le ascendenze romantiche di questo discorso sul genio, in particolare di Schopenhauer che larga diffusione conosce nel clima culturale del positivismo. "Prima di tutto dei geni, anche deboli, saranno sempre più preziosi dei talenti mediocri; ed è peccato il perderne un solo" (Pazzi e anomali, Città di Castello 1890, p. 296).
Ci sono quindi elementi di aristocratismo naturale in Lombroso garantiti dal "darwinismo". Vedendo nell'Internazionale, nel movimento di classe una causa dell'incremento del delitto in Italia, difende il darwinismo e il positivismo dall'accusa di essere la causa del nascere e del diffondersi delle idee rivoluzionarie: "Il Darwinianismo, prendendo le mosse dalla selezione della specie, dal trionfo della bellezza e specialmente della forza, dimostra essere impossibile, nella natura, la completa uguaglianza e naturale e necessaria, quindi, l'aristocrazia; che se negli animali inferiori la è costituita solo dall'energia muscolare o dalla ricchezza di connettivo, nell'uomo lo sarà invece dalla forza intellettuale e dal carattere" (Sull'incremento del delitto in Italia, Torino 1879, p. 9) (Per la teoria del genio in Lombroso cfr. anche quando dice C. A. Madrignani, in Cultura narrativa e teatro nell'età del positivismo, Laterza 1975, p. 38 e sgg. )
Singolari ma significative le lamentele del Lombroso intorno agli anni '90 (divenuto professore di clinica psichiatrica a Torino) riferite dalla figlia Gina cioè che "i tempi si erano fatti mediocri e banali si eran fatti anche i pazzi" di contro alla ''sconfinata immaginazione" degli ''strani alienati" e "fecondi pazzi" ''che così avevano eccitata la sua mente a Pesaro e a Pavia" venti anni prima. "Cretini dementi, epilettici, alcoolisti, paralitici generali: ecco quanto trovò nella nuova clinica e anche questi ultimi di una modestia che sconcertava..." (G. Lombroso, cit. p. 293).
Il deviante, l'anomalo, il genio sono visti come fattori di movimento storico la cui forza e potenza dirompenti sono da sottoporre al controllo del "tecnico" che si fa garante della norma: per regolare, trasformare, ordinare. Il progresso ordinato può nascere solamente dalla tensione tra il misoneismo come fattore stabilizzante di equilibrio e l'elemento di rottura. Al "tecnico" è affidata la possibilità di incanalare l'ineliminabile violenza, non lasciando libere le forze distruttive in gioco (cause di rivolte e sedizioni). La "scienza" pur essendone consapevole nasconde il processo, la genesi, dietro il feticcio del fatto che diviene il fondamento per assicurarne il dubitoso edificio. Alla fluidità precedente l'intervento del tecnico, succede l'ottusa rigidezza del catalogare e distinguere.
Pagine e pagine di misure, confronti, indici, tavole, ricerca ossessiva di anomalie fisiologiche e una congerie di fatti, fatterelli, aneddoti (il tutto faceva già sorridere per l'ingenuità e la rozzezza i più avvertiti tra i contemporanei) servono a costruire le tipologie umane fissate in tutte le loro più minuscole gradazioni, dal normale al delinquente. Normale è l'essere biologicamente assuefatto, attraverso l'educazione costrittiva, alle regole che danno coerenza all'organismo sociale così come negli animali la legge del "genere" sovrasta i singoli. In questo quadro non è peregrina (anche se ridicola) l'enorme casistica che Lombroso ci fornisce di delinquenza nelle piante e negli animali, anzi, essa ci offre una chiave interpretativa per comprendere la definizione stessa di anormalità.
La norma segue l'evoluzione ed è espressione del livello raggiunto dalla specie, chi sta al di sopra di tale livello (genio), o al di sotto (essere atavico), è il reo che necessariamente porta in sé, nel suo organismo le ragioni di tale colpevole frattura. "Si domanda come era il cranio di coloro che, nei tempi barbari commettevano atti, come eresia, bestemmia, stregoneria, puniti allora dalle leggi, mentre ora non lo sono più. Ora io ho dimostrato che i delinquenti contro l'uso, contro le religioni, erano allora i veri delinquenti, mentre i rei d'omicidio molte volte non erano considerati come delinquenti nelle epoche selvagge. Che, se quelli erano i veri delinquenti (eccettuati, naturalmente, quelli a torto perseguitati per solo sfogo di odio teologico e politico), è naturale che dovevano avere gli stessi caratteri dei delinquenti odierni; anzi, che è più, nella I edizione ho dato la descrizione di 12 crani di rei medioevali, che avevano le stesse anomalie dei nostri" (L'uomo delinquente, vol. I cit., p. XLIV-XLV).
E quindi la misura e l'azione divengono, in questa logica, direttamente politiche: "Gli è che il criminale è, per la sua natura nevrotica ed impulsiva e per odio alle istituzioni che lo colpirono e che lo inceppano, un ribelle politico perpetuo, latente ... costoro sono naturalmente e per interesse anti-misoneici: odiano lo stato presente, credendo che non l'ordine naturale, ma l'ordine di quel dato Governo costituito sia quel che li frena e li punisce..." (Lombroso-Laschi, n delitto politico e le rivoluzioni cit. p. 141). Le gradazioni quantitative che si pongono tra un tipo e l'altro scandendo il fluire continuo del reale, in ultima analisi divengono ipostatizzazioni metafisiche di razze qualitativamente diverse fra gli uomini. Si ripercorre una distanza segnata dal disprezzo moralistico che si salda indissolubilmente al giudizio preteso neutrale del tecnico.
Fra i due estremi del ''criminale nato", assolutamente diverso, e l'onesto, c'è tutta una serie di "tipi", di anelli di congiunzione che fondano in natura i vari aspetti della devianza. Ma anche la ''normalità" ha le sue naturali gradazioni e diversificazioni, su queste si modellano i ruoli sociali: maschio e femmina, bianco e nero, uomo del nord e uomo del sud, contadino operaio, scienziato etc. Così si crea, una rete che viene a coprire e a fissare, attraverso generalizzazioni e banalità di ogni sorta, ma anche attraverso una veste scientifica con apparenze pericolosamente neutre, tutto il tessuto sociale. Per questo le teorie che il nome di Lombroso richiamano hanno un'importanza che va ben al di là di una polemica fra una vecchia e una nuova scuola penale. É il tentativo di dare una spiegazione globale e unitaria della realtà, dall'inorganico alla storia.
Di fronte a questo, buona parte del socialismo italiano, fino a Labriola, nonché mostrare una minima autosufficienza teorica, non fa altro che ripiegare nella ricerca, all'interno di quella stessa cornice di darwinismo sociale che serviva all'imperialismo e al razzismo, di un angolino per speranze di riforme, di razionalizzazioni contro parassitismi e ingiustizie nella distribuzione delle ricchezze.
C'è la fede in una evoluzione per cui la ''vera" natura (il fisiologico) prevalesse magari, semplicemente, attraverso gli ''onesti" sulle falsificazioni apportate dalle ingiustizie economiche nella lotta per l'esistenza (il patologico). Per tutti basterà ricordare le posizioni espresse dal Ferri nel suo Socialismo e scienza positiva. Darwin, Spencer, Marx (Torino 1894).
Estremamente significativa nella sua rozzezza, l'argomentazione che, utilizzata da Lombroso per il caso Passanante, viene ripresa, con intimo compiacimento, con le stesse parole, anche a "chiarire" e classificare il fenomeno Davide Lazzaretti (cfr. anche La scienza infelice, che giustamente gli dedica alcune pagine, pp. 129-140). Due grossi avvenimenti sintomo, se non altro, del forte disagio sociale, ognuno con le proprie specifiche caratteristiche, sono appiattiti e risolti nella patologia individuale. Gramsci analizza nei Quaderni il significato storico-sociale della singolare figura di Davde Lazzaretti e del suo movimento esprimendo anche un definitivo giudizio critico sull'operazione di Lombroso e di altri autori che andavano nella stessa direzione. (Cfr. in particolare, Quaderni III, Einaudi 1975, p. 2279-83; cfr. anche E. J. Hovsbawm, I ribelli, Einaudi 1966, p. 96105).
Dal brano su Passanante, risulta senza veli anche la concezione del "normale" e la stabilità del ruolo sociale biologicamente prefissato. Che uno studente di liceo, che un impiegato qualunque sia preso dal ticchio di leggere tutto il giorno giornali e scombiccherare grossi quaderni dalle elucubrazioni più volgari e spropositate, io non ci troverei nulla a ridire (la nuova Biblioteca Elzeviriana sarebbe lì a provarcelo); ma che un cuoco, anzi uno sguattero, acuisca l'ingegno maggiore che natura gli diede, non nell'ammannire nuovi intingoli, ma nello scrivere continuamente, nel progettare repubbliche ideali, come non l'oserebbe forse attualmente Mazzini, e nel continuarvi anche quando non trova alcuno che gli badi, tanto da ridursi alla fame, qui troviamo una di quelle specie di eroi che, piuttosto di toccare le soglie del Walhalla, raggiungono o, almeno rasentano quelle del manicomio, tanto più se egli è di quelle regioni dove l'ideale delle basse plebi difficilmente si spinge verso le alte questioni politiche e morali, dove, per servirmi dei detti dell'illustre statista napoletano Rocco De Zerbi, "l'idealismo ha poca presa, dove la fede è sostituita dalla speranza, speranza di spender meno negli onesti, guadagnar di più nei meno onesti e bisognosi, dove la tendenza non è già l'entusiasmo per un principio, per un'idea, ma per un materialismo politico, che consiste, in fondo, nel voler pagare 10 lire di meno all'agente delle tasse, od aver un posto al Banco di Napoli, o una croce da cavaliere e, nei più rispettabili e delicati, nel non aver fastidi ed essere ripettati dagli altri". Quando in un simile ambiente un uomo, senza una speciale educazione, si caccia dietro ad ideali così diversi da quelli della sua classe, è certo anormale: potrà essere un genio, un Giotto da pastore trasformabile in pittore; ma se questo pastore trascura da una parte le pecore e dall'altra mi traccia solo degli sgorbi, indegni persino di un imbianchino, allora comincio a dubitare, non che si tratti di un vero pazzo, ma di quella forma intermedia che io chiamai già del mattoide... (Considerazioni al processo Passanante, in Delitti vecchi e delitti nuovi, Torino 1902, p. 202).
Abbiamo voluto riportare per esteso la citazione perché, di passaggio ma non casualmente, dà anche un esempio di comoda e sbrigativa psicologizzazione antropologica del 'tipo' napoletano. Lombroso riporta, per oggettivare e suffragare positivamente il giudizio, la testimonianza di un 'esperto', l'On.. De Zerbi, seguace della nuova scuola. L'utilizzazione di categorie materiate di un rozzo e deteriore psicologismo, com'è noto (ma va ricordato), non fu certo neutra o 'riformista' ma funzionale al diffondersi di teorie razziste sull'inferiorità biologica e 'atavica' dei meridionali che rispondevano a tanti scomodi perché.
Il darwinismo sociale, il positivismo lombrosiano furono il terreno fertile per il prosperare di tutta una sottocultura di medici, giuristi, avvocati che grandemente influenzò l'opinione pubblica e che risolveva l'impegno in una applicazione empirica, assidua, ad ogni fatto, anche di cronaca, per funzionare da raccolta di luoghi comuni, pregiudizi razionalizzati e restituiti sotto il nome di 'scienza' (Su questo cfr. in particolare Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, Roma 1966 pp. 135-36 e sulle sue orme M. Salvadori, 11 mito del buongoverno, Torino 1972 p. 184 sgg.).
In considerazioni successive sul caso Passanante, dopo aver citato gli esempi delle pazzie epidemiche del medio evo "che si ripetono nei nihilisti di Russia, nei mormoni e nei metodisti d'America, negli incendiari Normanni, ed ora in quelli della Comune di Parigi" assimilati per quanto riguarda l'Italia "ai torbidi suscitati nell'Emilia dal macinato, nei quali, secondo uno studio accuratissimo dello Zani appunto presero parte sette alienati", propone come risposta risolutiva per la difesa sociale l'istituzione del manicomio criminale e così conclude alla ricerca di una comune sicurezza: "Forse che non era egli più consolante il poter dire che non fu sano di mente quello che attentava il nostro re, che il tentativo del regicidio non fu l'espressione delle passioni di un partito e nemmeno d'un individuo, ma l'effetto di una malattia...?" (Pazzi e anomali, cit. pp. 343-44).
Se dal quadro generale, tracciato a grandi linee, scendiamo quindi alla concretezza dei singoli interventi sul sociale (qualche altro significativo esempio lo daremo discutendo brevemente l'introduzione del Giacanelli) ci sembra di vedere una conferma della funzione ideologicamente repressiva svolta dallo stesso Lombroso. Non ci sentiamo infatti di poter accreditare l'immagine che, pur all'interno di un'equilibrata e articolata lettura del fenomeno Lombroso, emerge dalle pagine del Giacanelli. Egli inserisce la posizione del criminologo nel movimento generale del processo costitutivo dello stato e della coscienza unitaria nell'ambito di forti contraddizioni: il ruolo dell'intellettuale è notevole per la razionalizzazione riformista di una patologia sociale. Lombroso apparterebbe all'ala più avanzata e radicale di questa borghesia che non si rifiuta al confronto con i problemi reali, non si nasconde che dopo l'unificazione il lavoro è tutto da compiere per una vittoria sull'arretratezza. "É--scrive Giacanelli--tra quelli che si collocano più a sinistra rispetto al potere ufficiale, e si erigono a coscienza critica di una società che indugia sul vecchio ed esita a intraprendere la strada della sua organizzazione più avanzata cioè razionale, 'positiva', scientifica" (p. I l).
In realtà, nel constatare una militanza dell'intellettuale che non identifica la sua marcia con quella delle classi dirigenti, si concede poi un po' troppo a Lombroso con questa definizione. Ci sembra che il "tecnico" voglia imporre una "sua" norma, certo immanente e razionalizzatrice, critica di ogni residuo spiritualistico, ma tale da non incrinare il fondo sostanzialmente apologetico. Non di "appropriazione scientifica dei grandi problemi nazionali" (p. 13) si tratta, bensì di far passare, esorcizzandoli, i grandi problemi attraverso le maglie dell'ideologia "scientifista", garantita dalla superiore neutralità del "tecnico".
É presente in Lombroso il mito, diffuso dopo la Comune, di una politica "sperimentale" di cui lo scienziato si fa depositario, una sorta di ingegneria sociale lontana dalle astrazioni e passioni del giacobinismo (basti pensare ai Dialoghi filosofici di Renan col sogno inquieto di una aristocrazia dei "savants" che dominano saldamente col terrore una società naturalisticamente gerarchizzata, ed alle posizioni di Taine).
In nome dei fatti "positivi" e del rifiuto a brutalizzarli e violentarli come facevano i rivoluzionari (malati dell'ideale) di Taine (e, ripetendo la stessa follia, i comunardi), si vuol costruire un ordine che tenga conto, come si è visto dell'ineliminabile fondo di violenza nella "bestia umana". La democrazia, il parlamento, sono oggetto di attacco da parte di Lombroso, che si muove sulle orme della contemporanea cultura reazionaria francese. Non è in nome di una reale "rappresentatività popolare" di contro all'accentramento (p. 13) come sembra credere Giacanelli, che Lombroso critica la "superstizione parlamentare" ma seguendo la logica del "Senatores boni viri, senatus mala bestia" (cfr. Il momento attuale, p. 19). Non dimentichiamo che Lombroso fu, se non il padre, come pretendeva la sua scuola, certo uno dei padri della psicologia delle folle e che Scipio Sighele era uno dei suoi allievi più fedeli e stimati.
Lombroso afferma, citando le sue fonti francesi, che il parlamentarismo è "la più grande delle superstizioni moderne", che il suffragio universale è un pericolo in quanto "corrisponde al dominio del numero sul merito, della quantità...". "É il benessere, non il dominio dei più che bisogna cercare, e il primo esclude necessariamente il secondo, come la salute e la ricchezza di un bambino vanno in ragione inversa della sua piena libertà, della sua onnipotenza....L'aristocrazia della scienza... è la sola che possa rendere la borghesia superiore al proletariato". Il valore del voto dovrebbe essere quindi proporzionato al merito e tale che controbilanciasse l'influsso del numero. In armonia con il quadro si auspica infine l'istituzione di "ministeri affatto tecnici, e sottratti ad ogni influenza di partito..." (Il delitto politico e le rivoluzioni, cit. p. 511-523). Lombroso tornerà a più riprese sulla "follia" delle masse basti ricordare, per tutte la grossolanità con cui diffonde é completa le teorie del Taine nello scritto (conferenza) La delinquenza nella rivoluzione francese (Milano 1897). La tesi storiografica viene annunciata con invidiabile imperturbabilità: "Quella che si suole chiamare Rivoluzione dell'89, non fu che una grande rivolta e un grande delitto politico che servì ad aumentare una triste serie di comuni delitti..." (P. 3).
Questa assurda sequela di crimini e aneddoti di gratuita violenza raccontati con compiacimento letterario e non senza un certo gusto sadico, offre un tipico esempio della pretesa 'scienza aperta' di Cesare Lombroso, di quell'opera di pubblicista infaticabile che diffondeva e 'popolarizzava' le sue teorie. Ogni attentato anarchico, in qualunque parte del mondo avvenisse, non mancava di avere, fra i tanti, anche il commento della scienza lombrosiana: un rimasticamento puntuale di vecchie sciocchezze generali che ripercorrevano la storia del delitto politico: da Bruto alla Corday, a Orsini, fino ad arrivare, già stanca, all'episodio da illuminare. E qui allora non rimaneva a Lombroso che accettare, come dirà Pietro Gori, la "sozza versione questurinesca" magari facendo vedere, in più, il determinante influsso del clima o le ascendenze pellagrose del reo. Si comprende perciò il largo successo internazionale di questi suoi scritti nell'opinione media, al di là dello 'scientifico' sospetto di risultare ingrato sia agli anarchici che agli sbirri (Gli anarchici, Roma 1972, p. 7).
Per quanto riguarda il "decentramento amministrativo" (Giacanelli, cit. p. 13), l'adesione della scuola positiva a questa tematica agitata dai gruppi più progressisti, non è certo priva di ambiguità. Non si può far discendere tale posizione, come apologeticamente è stato fatto, unicamente dalla tradizione dei Cattaneo e della parte più avanzata del risorgimento; infatti l'adesione al decentramento è guidata spesso da convinzioni razzistiche: la "scienza" aveva insegnato l'inferiorità biologica e la pericolosità d certe popolazioni e ciò dettava la misura prudenziale di non accomunare e mescolare troppo le razze superiori del nord con le inferiori del sud e delle isole. Queste le posizioni del Sergi, dell'Orano, che vengono energicamente sostenute dai sedicenti socialisti Ferri e Niceforo.
Certo la posizione del Lombroso appare in molti casi più sfumata (cfr. per esempio lo scritto In Calabria) per il desiderio che la scienza si ponesse come reale sostegno e non dissolvente della raggiunta e fragile unità. In altri scritti però le convinzioni razzistiche emergono chiaramente anche su questo punto: "É questa politica del distacco e dell'autonomia conviene, talora, anche in una stessa nazione, quando, per le condizioni di razza, vi sia una disuguaglianza enorme. Allora una legge uniforme come un vestito uguale applicato a membri disuguali, produce dolore e danno e quel continuo malessere che si esplica colla rivoluzione..." (Il delitto politico e le rivoluzioni, cit. p. 502).
Per il problema dell'educazione (cfr. Giacanelli, pp 1314), centrale negli interessi delle classi dirigenti dell'Italia unita, a nostro parere bisogna distinguere il discorso di Lombroso dalle posizioni più aperte presenti nell'ambito del positivismo. L'educazione agendo solo sullo strato avventizio del carattere e quindi incapace di operare modifiche in profondità, non è certo un fattore di rigenerazione o tanto meno, di coscienza critica, ma di quietistico adattamento al proprio stato ("normale"). Per questo si dà una certa importanza in Lombroso, come in Sergi, all'educazione delle classi che meno sembrano conciliate con la propria condizione: operai, artigiani, piccola borghesia, per confermarli nella loro situazione di onesta produttività. Scetticismo si nutre invece nei confronti di una educazione indirizzata alle classi contadine, chiuse nel loro "atavico" isolamento, incapaci di un sostanziale sviluppo.
La problematicità era molto diffusa: il misoneismo l'Idiotismus des Landslebens erano dati "scientifici" con cui bisognava fare i conti. Così si esprimeva il Ferri: i cervelli dei contadini sono "così anemici di idee, non tanto per la miseria fisiologica cui sono troppo spesso condannati quanto, piuttosto, perché essi sono realmente per ragioni sociali ma anche naturali, una stratificazione, che rappresenta una anteriore fase dell'evoluzione psichica umana" (Ferri, Socialismo e criminalità, Torino 1883).
L'educazione deve essere soprattutto tecnica; questa dà dignità all'operaio e lo rappacifica con la propria funzione.
In Lombroso la polemica contro l'educazione classica è scopertamente politica: il classicismo con la sua esaltazione delle virtù "astratte" (libertà, coraggio, etc.) e dell'uomo in sé, è fomentatore di rivoluzioni: "... ecco perché, mancando così di una solida base, il giovane si getta in braccio alla prima novazione, anche la più errata, la più discorde dai tempi, quando gli ricorda la male intravveduta antichità. Chi ne dubitasse ricordi il classicismo dei rivoluzionari dell'89..." e, citando Ferrero, "Tutta l'educazione classica che altro è se non una glorificazione continua della violenza, in tutte le sue forme?" (Gli anarchici, Roma 1972, p. 41). Anche in Lombroso, Rousseau è l'esempio "geniale" di quali conseguenze può avere il connubio fra classicismo (l'uomo astratto e uguale nella "ragione") e follia per cui si misconosce la "realtà" sperimentabile delle differenzedi razza, clima, sesso per ridurre tutto alla volontà generale e al contratto sociale.
Questo tipo di problematica ha, ancora una volta, le sue matrici puntuali nel Taine (del resto molto spesso citato) e nelle polemiche contro lo spirito classico-astratto dei giacobini nate in ambiente francese dopo il '70 e diffuse in tutta la cultura borghese europea. Taine caratterizza del resto tutta la sua opera su Le Origini della Francia contemporanea come una analisi puntuale del 'germe patogeno' del classicismo essenziale per comprendere i principi dell'89 e le loro funeste conseguenze. "In fondo, la Francia è stata demolita e poi daccapo ricostruita sulla base di un falso principio, che si muove dietro uno spirito angusto e superficiale: lo spirito classico. Dalla prima fino all'ultima frase del mio libro questo spirito costituisce l'unico e principale oggetto d'indagine" (H. Taine, Sa Vie et sa Correspondence, vol. IV, Paris 1907. p. 124)48.
Siamo ormai ben lontani dallo spirito con cui Cattaneo trattava dell'istruzione tecnico-scientifica o umanistico-classica. Ancora significativo è l'atteggiamento sostanzialmente pessimistico nei confronti dell'educazione nel suo complesso: siamo in una problematica in cui il biologico è il dato insormontabile: razze inferiori, ataviche o criminali, rei nati, sono il limite estremo su cui l'educazione non può niente.
Lombroso afferma che ogni uomo, da bambino, è un primitivo, quindi è fisiologicamente un criminale. L'educazione ha una sua forza soltanto di inibizione, non certo di potenziamento di capacità positive, in quanto provoca il meccanismo dell'adattamento alle regole della società attuale (in cui la criminalità, individuale, è morbosa perché priva della funzionalità che le è propria in un ambiente primitivo).
L'educazione impedisce che tutti rimangano criminali ma non può certo impedire agli organismi predisposti-- impossibilitati dalla propria organizzazione fisica ad accogliere gli ''strati avventizi" del carattere--di restare pericolosi. Verso questi ultimi la società ha un solo compito: la repressione. Ricordiamo, di passaggio, le posizioni assunte dalla scuola positiva verso il codice Zanardelli, accusato di eccessiva mitezza (Lombroso recrimina tra l'altro l'abolizione della "pena più sensibile di tutte, la morte"): "Ma questo è piuttosto un difendere i rei dalle vittime, che le vittime dai rei..." (Troppo presto, Appunti al Nuovo Codice penale, Torino 1888). L'atteggiamento è conseguente: la scuola condusse una assidua autodifesa contro le illazioni umanitarie che si potevano trarre dalle nuove teorie per non parlare dei casi più aberranti, dalla logica estrema, di eugenetica razzista di molti seguaci di Lombroso.
Lombroso distingue "educazione" da "istruzione alfabetica" la quale può cambiare la natura del delitto ma aumenta il numero dei reati. Di conseguenza in una operetta del 1879 (Sull'incremento del delitto in Italia) viene indicata come un pericolo (p. 80). Anche nella polemica con Gabelli ed altri autori, Lombroso a chiare lettere si esprime contro l'istruzione alfabetica per le classi pericolose e si fa coraggioso portavoce di una lotta contro il pregiudizio riassunto dal noto errore di Guizot:"Ad ogni scuola che aumenta scemerà una prigione" (Polemica in difesa della scuola criminale positiva, Bologna 1886 p. 24). In ogni modo, per educazione bisogna intendere: "una serie di impulsioni, moti reflessi sostituiti lentamente a quegli altri che furono cause dirette o almeno favorevoli al mantenimento della prave tendenze...." (L'uomo delinquente, cit. vol. I, p. 132), una sorta di rigido condizionamento fisico-psicologico che mai porterà ad un dominio consapevole sulla realtà.
Dato quanto si è detto finora, risulta poco credibile un Lombroso che senta fortemente il problema di una alfabetizzazione di massa e creda veramente all'esigenza di educare il popolo (Giacanelli, p. 14). La stessa battaglia contro la pellagra, che fu indubbiamente quella che Lombroso condusse con più apertura verso il mondo contadino, non fu certo un portare "alla base" il problema per intima convinzione (Giacanelli, cit. p. 14).
Permane, a viziare l'atteggiamento di fondo, la forza del pregiudizio verso i crani atavici dei contadini, pressoché irrecuperabili ad un ordinato progresso, facilmente preda di mattoidi come Lazzaretti o del furore anarchico.
Lombroso crede ad una scienza ''separata": il contadino pellagroso è, prevalentemente, oggetto di esperimento, "fatto" e reperto da valorizzare per rifarsi dei sarcasmi e delle delusioni accademiche. Infatti definisce "povere arti degli avversari" lo scendere verso l'opinione pubblica "abbandonando le serene regioni della scienza" cui si sentì costretto per vincere "le risa degli ignoranti e l'incredulità dei benevoli" (L'uomo delinquente, cit. p. V).
Nelle Memorie di un pellagrologo, pubblicate postume, Lombroso rivela con chiarezza ancora maggiore il suo atteggiamento verso la diffusione "popolare" della scienza: per quanto riguarda i Comizi Agrari, Congressi medici, "i discorsi furono molti, né vi mancarono i soliti plausi e i banchetti, ma purtroppo l'unico risultato fu l'indigestione di alcuni dei membri" "Pensai allora di rivolgermi direttamente al popolo minuto, con pubblicazioni analoghe a quelle canzoncine popolari, ad un soldo che formano la sua delizia esclusiva. Ma delle diecimila copie sparse per mezzo dei rivenditori e dei rivenduglioli, poche giunsero alle capanne a cui le destinava; perché il contadino che trovava in questa diffusione una specie di offesa, una specie di denunzia palese dell'esistenza di quel morbo che egli pur soffrendo, si vergognava di vedersi attribuire, bastonava di santa ragione il venditore, che non volle più saperme di quella merce" (cit. in Gina Lombroso, op. cit., p. 169).
Dopo la delusione, scontata, che gli veniva dal popolo delle campagne, si rivolse agli uomini di governo (e non viceversa, come afferma Giacanelli, cit. p. 14) proponendo, inascoltato ancora una volta, iniziative di prevenzione nei confronti della malattia ma anche per presentare loro una proposta più ampia a livello sociale: decidersi a colpire i disonesti parassiti per impedire che i poveri onesti e angariati cercassero consolazione nel prete e nel paradiso o, minaccia ben più urgente, fossero trascinati in pericolose rivolte, (ib.).
Questo è forse il punto di arrivo più progressista, alla Villari, a cui può giungere Lombroso. Questa buona, moralistica volontà, che non scende mai dal "noi" (classi dominanti), ma che spesso è capace di una notevole forza di denuncia contro singoli agrari profittatori e disonesti, non incrina, però, l'effetto di nascondimento che la teoria, nel complesso, ha. Vediamo brevemente perché.
Per Lombroso la malattia è causata non da una alimentazione esclusivamente maidica ma dall'uso ripetuto di granoturco guasto. Ne veniva fuori un quadro, tutto sommato, più rassicurante rispetto alla tesi dell'insufficienza alimentare, in quanto non erano rapporti strutturali ad essere messi in forse. L'alimentazione a base di maiz guasto è dovuta infatti da un lato a casi di disonestà malvagia di commercianti o agrari, favoriti, questi ultimi, da patti colonici particolarmente iniqui, dall'altro alla rozza psicologia alimentare che Lombroso attribuisce ai contadini. Pregio del maiz per il contadino è infatti che "occupa un gran volume nel suo stomaco... Questa smania della quantità in confronto della qualità dell'alimento, è giunta nel contadino a tal punto che non solo egli cambia il frumento anche a pari prezzo contro la polenta che è più pesante ma cosa davvero incredibile, preferisce mangiare il maiz già putrefatto quando è rifiutato dagli animali meno intelligenti, quali il pollo e il maiale" (Del maiz in rapporto alla salute, in La rassegna settimanale 1 878).
Si propone quindi la solita moralizzazione attraverso un minimo di controllo sui padroni e l'obbligatorietà di essiccatoi nei possedimenti agricoli. Per quanto riguarda la dibattuta abolizione della tassa sul macinato, Lombroso è favorevole soltanto alla sua eliminazione per i grani inferiori: "Per lo meno il contadino mangerebbe sano il maiz, se si scemasse la tassa su tutti i grani sarebbe inutile, tanto il contadino continuerebbe a mangiare maiz" (Macinato e pellagra, ivi, 7 luglio 1878).
L'immodificabilità dell'atteggiamento alimentare dei contadini non si discute, Lombroso la prova confermando il suo determinismo razzista: "Il popolo nostro, delle campagne almeno, è trascinato alla preferenza di alcuni suoi alimenti poco salubri così inesorabilmente che non vi è tariffa, né tassa, né disposizione di legge che valga a mutarvelo. L'italiano del nord e del centro mangerà il suo granone come i siciliani i loro fichi d'India, ed i napoletani i loro maccheroni anche se gli si provasse esserci dentro una trichina od un alcaloide" (ibidem).
Questo modo "psicologico" di giustificare comodamente le forzate abitudini alimentari di popolazioni ridotte spesso al limite vitale è estremamente significativa con la sua forza di nascondimento. Del resto, il maiz, di per sé, sarebbe un ottimo alimento o almeno non nocivo. Lo confermò, racconta Lombroso, anche un esperimento condotto in corpore vili da un suo avversario. Questi aveva distribuito ad una famiglia di contadini, per molto tempo, polenta sana sorvegliando che non mangiassero altro alimento e "con suo gran dolore non li vide diventar pellagrosi" (La pellagra in Italia in rapporto alla pretesa insufficienza alimentare, Torino 1880, p. 11).
Il tipo di esperimento non suscita neppure una parola di condanna in Lombroso, mentre grande e sincera è l'indignazione per la 'scorrettezza scientifica' di quello studioso che non gli aveva comunicato i risultati delle ricerche suffraganti la sua teoria. Inoltre neppure sarebbe vero che i contadini delle zone pellagrose si cibino esclusivamente di maiz. Una parte dell'operetta di Lombroso sopraccitata, significativa già nel titolo, è volta a provare coi 'fatti' quanto varia, e in fondo ricca, fosse l'alimentazione dei contadini che si ammalavano.
Quadretti familiari corredati di statistiche come il seguente sono frequentissimi: "E una sola famiglia di agricoltori, dove non c'è grave caso di pellagra, ma pochi ne sono affatto esenti. Sono lavoratori esemplari, come esemplari mangiatori. La pietanza della colazione era il formaggio e quella di desinare salame sale ed acqua. Ogni kilogrammo di riso ne dà quattro di minestra, ed ogni kilogrammo di farina di melicotto ne dà tre di polenta. Noto che non siano nell'epoca dei lavori campestri, allora i pasti sono quattro e tutti più abbondanti". (ib., p. 67) E d'altronde--sostiene Lombroso--"è certissima cosa che non tutti i ricchi sfuggono alla pellagra" (ib. p. 46).
La medicina e la sociologia lombrosiana dimostrano che non è la scarsa nutrizione (direttamente legata alla miseria) che porta alla pellagra, ma il granoturco guasto, che effettivamente genera tossine nocive. É quindi naturale che sia pure molto tardi, nel 1902, il riconoscimento legislativo gratifichi le posizioni lombrosiane, anche se i sostenitori dell'insufficienza alimentare avevano fornito prove ed esperimenti quanto, se non più, dei fautori dell'eziologia lombrosiana.
"Medici studiosi e colti, che hanno conoscenze dei luoghi ed esperienza della malattia, quotidianamente, per l'ufficio loro, riferiscono che il maiz di cui si alimentano i contadini anche più poveri e gli stessi colpiti da pellagra è generalmente sano". Così G. Badaloni nella sua Relazione sulla pellagra nel bolognese (1902). Quest'ultimo autore cita poi sue numerose esperienze confermanti la non incidenza del maiz guasto sulla pellagra.
A conferma dell'ipotesi dell'insufficienza alimentare si citano anche le prime istituzioni di locande sanitarie, per ora, per lo più, frutto di iniziative private filantropiche, in cui il contadino con ascendenti pellagrosi o che presentava i primi sintomi della malattia era ammesso a mangiare pasti variati e sufficientemente abbondanti: i risultati delle locande per la guarigione o il miglioramento di molti soggetti fu eccellente. Quindi esistendo prove suffraganti almeno ambedue le teorie, è chiaro perché il governo optasse per quella lombrosiana: infatti persuase "il governo con l'allontanargli lo spauracchio della necessità di una radicale riforma economico-sociale, quale si imponeva ai sostenitori dell'insufficienza alimentare, della possibilità di iniziare i provvedimenti profilattici, regolando semplicemente con misure di polizia sanitaria il commercio del maiz" (Antonini e Tirelli, L'opera pellagrologica di Cesare Lombroso, in L'opera di Cesare Lombroso, cit. p. 127). É chiaro quindi che al di là della personale e talvolta coraggiosa lotta di Lombroso contro i disonesti proprietari terrieri con la denuncia di situazioni limite di particolare criminalità padronale (cfr. La pellagra in Italia ecc. cit. p. 78 e sgg.), la sua tesi fu usata dal governo come la più comoda.
Lui stesso ha la consapevolezza della convenienza economica delle sue proposte e si meraviglia che la legge abbia mantenuto qualche piccola ambiguità con lievi concessioni ai sostenitori dell'insufficienza alimentare: "É sono un altro avanzo delle ubbie sulla scarsezza dell'azoto e della carne come causa di pellagra gli articoli 11 e 12 dove si parla di alimentazione curativa dei pellagrosi poveri, non che io non creda di qualche vantaggio la buona ed abbondante alimentazione in questo caso come lo è in tutte le intossicazioni; ma quando si tratta di farlo in grande scala, trova impedimento nella difficoltà dell'esecuzione, mentre invece la cura farmacologica affatto dimenticata, arsenio, cocculo etc. raggiunge l'effetto col minimo sforzo" (La nuova legge sulla pellagra etc. in Archivio di Psic. p. 450).
Se infatti l'istituzione delle locande sanitarie poteva essere in sé poco costosa ed era solo un tentativo filantropico e generoso di alcuni medici ed amministratori, proporla legalmente come rimedio, sarebbe stata una grave ammissione del fatto più generale di una condizione contadina che non certo una singola legge poteva sanare e di fronte alla quale era meglio, per il governo, affrontare piuttosto le ire di qualche proprietario criminale ed arretrato.
Quindi non condividiamo affatto la suggestiva e populistica immagine che, attraverso le parole dell'anarchico Berneri, Giacanelli ci propone nelle ultime pagine dell'introduzione, cioè di un Lombroso che va "verso i poveri contadini ignoranti" teso in un'opera di redenzione sociale49. Giacanelli, nella seconda parte del suo saggio, mette bene in luce i limiti del discorso lombrosiano (ad es. l'ipostasi del fatto e della situazione, senza tener conto di qualsiasi specificità e differenza - l'ipostasi del fatto grafico come nei Palinsesti p. 17). I numerosi esempi di tale procedimento vengono riproposti nella documentazione fotografica de La scienza infelice (p. 153 e sgg.).
Non sempre però questi limiti sono visti chiaramente nella loro valenza ideologica. Il Giacanelli non manca di rapportare il discorso di Lombroso al pregiudizio dell'epoca, spesso l'unica fonte per ricostruire il "tipo" delinquente attraverso la ripetizione di stereotipi presenti in certi strati della società.
Di "scientifico" c'è solo il procedimento matematico (curve di frequenza e percentuali) ma le categorie adoperate per l'analisi sono altrettante pennellate di un ritratto morale che ispira sdegno e orrore, obiettivazione del vissuto quotidiano del "male" (p. 20). Le pagine più felici del saggio ci sembrano perciò le più critiche, come quelle in cui l'autore, sulla scia di Gramsci, coglie il legame tra certa letteratura d'appendice, feuilletons e l'interesse della sociologia lombrosiana per la criminalità ("un postumo del basso romanticismo del '48"). Questa parte del discorso (completamente accettabile) sostanzialmente mette in crisi l'immagine progressista abbozzata nella prima parte del saggio e ripresa nella conclusione. La presunta scienza aperta e impegnata sul sociale, non ancora chiusa nelle accademie al servizio silenzioso ed efficiente dello stato dato o il naturalismo critico di ogni residuo spiritualistico, non sono sufficienti a garantire, a nostro parere, neppure uno spazio di serio riformismo al discorso lombrosiano.
La ragione nuova borghese, in realtà, cosa che il Giacanelli non sembra avvertire a sufficienza, ha in sé forti elementi repressivi di cui Lombroso è espressione (significative le polemiche che la sua opera suscitò anche all'interno del positivismo). Il passaggio all'istituzionalizzazione della psichiatria sarà naturale conseguenza di premesse e non dovuto ad una rilettura "tecnica" (chiusa e tutta strumentale per il potere dato) attraverso una forzatura e stravolgimento dell'ideologia materialistica e in fondo, per Giacanelli umanitariamente progressiva del criminologo (p. 29 e sgg.)
Si è detto che il merito dei positivisti ed anche dei lombrosiani è l'attenzione concreta a problemi reali, lontana dall'evasione e dall'astrattezza letteraria propria dell'intellettuale italiano. Questo è vero: bisogna però notare che in quella crisi di valori e di sicurezze che caratterizza gli ultimi decenni del secolo, un'opera di nascondimento apertamente apologetica era di per sé impossibile.
Il sentimento di una catastrofe sociale imminente si realizzava per altri in angosce cosmiche oppure in proiezioni mitiche e rigeneratrici, che preparavano il terreno ad un attivismo irrazionalistico e reazionario. Il medico si trova di fronte alla malattia sociale che deborda ogni limite e possibilità di controllo (i frequenti casi di "misdeismo" per il disagio nell'esercito, le ingenti masse di contadini pellagrosi, la sequela dolente dei bambini degli ospizi e degli orfanatrofi già irrecuperabili soggetti nati a delinquere, intere popolazioni in miseria decretate come chiuse in un atavico immobilismo etc.).
Nonostante questo, la forza del nascondimento impietrisce ed immobilizza nel catalogare e distinguere. Nella stessa formulazione del male c'è già pronta la copertura ideologica: il "fatto" ritagliato veniva offerto come probante di per sé. In realtà, nella miseria della teoria, ciò che parlava era la violenza oggettiva del potere.



Quando queste pagine erano già scritte è stata pubblicata su "La questione criminale" (I, 1976, pp. 194-205) la rassegna "Lavori recenti su Lombroso ' di Franco Silvani.
Appare un segno dei tempi la completa ed entusiastica accettazione delle tesi del Bulferetti (e/o di Gina Lombroso) cui è dedicata la maggior parte delle pagine, volta a reprimere le voci critiche antilombrosiane e più impegnate in senso antiistituzionale. Sembra quasi che ogni posizione che colga la funzionalità apologetica della risposta lombrosiana alle contraddizioni sociali (del resto in buona compagnia: basti pensare ai giudizi definitivamente critici di Labriola, di Gramsci, del democratico Colajanni e, fuori d'Italia, di Lafargue e di Kautsky) sia di necessità una sopraffazione ideologica di chi prenderebbe il criminologo come capro espiatorio per il proprio furore antiistituzionale (in particolare la polemica è diretta contro l'introduzione di A. Pirella a L'uomo di genio, che, pur schematicamente, coglie a nostro avviso, il senso politico della proposta lombrosiana. La povertà degli elementi che il Silvani porta a convalida del suo discorso non gli dovrebbe permettere di gratificare di necessaria superficialità e sommarietà le posizioni antilombrosiane. La giusta esigenza di storicizzare la figura del criminologo si traduce poi, accentuando e irrigidendo certe tesi di Bulferetti, in un inserimento di Lombroso non tanto nel clima europeo post '70, quanto nelle polemiche e nella realtà culturale della metà ottocento. Infatti quasi che storicizzare significhi soprattutto privilegiare le origini, viene colta tutta la sostanza della teoria nelle prime manifestazioni del pensiero giovanile (di qui il presunto, determinante vichismo dato come costante e come portatore di buona consapevolezza storica). Questo errore di fondo condiziona negativamente l'interpretazione. Si arriva a parlare, sulla scia di Bulferetti, di una pretesa neutralità teorica del darwinismo sociale, a risuscitare il fantasma di De Maistre, alla fine del secolo, per mostrare quanto progressivo fosse il materialismo lombrosiano completamente assimilato a quello dei "socialisti" del XVIII secolo . Si riallacciano le posizioni di Lombroso alla fiducia aperta e ottimistica nelle possibilità della scienza di un Saint Simon e di un Cattaneo, senza cogliere affatto l'incrinatura e l'incupirsi pessimistico del positivismo negli ultimi decenni del secolo in cui sarà presente non solo Schopenhauer ma, a volte, perfino l'eco di temi ed accenti che erano stati di un De Maistre (la condanna e predestinazione biologica si sostituiscono a quella divina).
Altre risposte ai' temi sollevati dal Silvani le crediamo implicite nel testo sia pure nei limiti di una sintesi. La concretezza storica del discorso, anziché mettere in crisi, conferma il significato sostanzialmente repressivo della posizione di Lombroso e della sua scuola. É proprio su questo terreno che avverrà il riconoscimento di Rocco a Ferri e di padre Gemelli alla scuola positiva e di qui, evidentemente, anche la posizione del vecchio Prezzolini ricordata dal Silvani (p. 195). Del resto quest'ultimo liquida in poche frettolose righe un'opera intelligente e ricca di suggestioni come La scienza infelice riducendola ad un testo di sbrigativa critica senza leggere, per altro, quanto in realtà l'introduzione di Giacanelli, pur articolata e piena di spunti, conceda a Lombroso.