La scienza
infelice di Cesare Lombroso
ricerca a cura di Isa Ciani e Giuliano Campioni
"Ed è colla lietezza, con cui un adolescente va al teatro, che
ei si avviava ogni
mattina alle sue carceri,
ed anche quando era malato, stanco, anche nei giorni più
melanconici, le sue carceri, ebbero sempre
il potere di ridargli la vita, l'eccitamento, la gioia."
(Gina Lombroso, Cesare Lombroso: storia della vita e delle
opere, Bologna 1921, pp. 247-48)
La figura di Lombroso, da tempo presente nei manuali solo come mitico
pioniere della
moderna criminologia, e pesantemente vivo nella realtà delle nostre
più repressive
istituzioni, sta conoscendo una nuova fortuna. Da una parte è lo
stesso movimento
di lotta contro quel tipo di istituzioni che spinge a verificarne
criticamente la genesi,
dall'altra opera la volontà di riportare alla luce elementi del
positivismo in cui
la cultura non si presenterebbe in una sfera di separatezza ma come
direttamente
coinvolta alla risoluzione dei più drammatici problemi sociali.
Nella direzione di un completo recupero il contributo più
sistematico e apparentemente
più ricco viene dalla monumentale biografia di Luigi Bulferetti (C.
Lombroso,
Torino Utet, 1975). Merito dell'illustre studioso è quello di
riportare alla luce,
con il padre, anche la figlia Gina (senza peraltro quasi mai citarla). La
dipendenza
dalla biografia (Cesare Lombroso, Storia della vita e delle opere,
Bologna 1921) piena di filiale venerazione per il genio paterno, è
provabile senza
molti sforzi: basta un confronto strutturale. In molti casi Bulferetti si
limita
a fare un riassunto, talvolta ripetendo espressioni ed interi giri di
frasi. Pochi
elementi aggiunge (soprattutto nella Premessa
e nella rassegna bibliografica, utile anche se confusa) a livello
interpretativo e
del tutto discutibili, oppure ricavati dall'altra sua grande fonte,
L'opera di Cesare Lombroso nella scienza e nelle sue applicazioni
(Torino 1906), volume dovuto alla penna benevola o interessata di allievi e
seguaci,
in occasione del VI congresso di antropologia criminale, per imbalsamare
accademicamente
lo scienziato oramai perdutosi fra le nebbie "materiali" dello
spiritismo.
Il giudizio che viene fuori dall'opera di Bulferetti è, nel
complesso, piattamente
apologetico (basti pensare alla linea diretta che unirebbe Lombroso alla
tradizione
dei Beccaria e dei Cattaneo, senza che venga colta la specifica, talvolta
antitetica
funzione ideologica dell'uno rispetto agli altri): rimane il segno della
filiale venerazione
per il genio tutto cuore del padre. Sia Ferrarotti nella recensione al
Bulferetti
su "Paese sera" (10/X/'75) sia Giacanelli nell'introduzione a
La scienza infelice
(a cura di G. Colombo, Bolinghieri Torino 1975) appaiono impressionati
dalla mole
("documentazione ricchissima") del libro ed evidentemente dalla
disinvoltura con
cui l'illustre biografo di Lombroso si intrattiene con quel fitto mondo,
oggi ricoperto
dalla polvere, di medici, giuristi, sociologi, non solo italiani, che
formavano il clima
culturale della "scuola positiva". In realtà tale
disinvoltura è frutto, prevalentemente,
della consuetudine che la Gina Lombroso aveva con personaggi in varie forme
legati al padre.
La scienza infelice,
al di là delle indicazioni interpretative su cui torneremo, ha una
sua decisiva forza
in quanto ci ripropone visivamente il museo di Lombroso. La montagna
confusa di teschi
(p.76) già catalogati dall'"alienista della stadera" con
cura, se non con tecnica
esattezza anche a giudizio dei seguaci, impone, con la sua polvere, il
senso della
lontananza di quel mondo. Rimane, di tutti quei reperti e "fatti" probanti, nella
moderna criminologia, solo il risultato, la scoperta, cioè, che il
delinquente (il
deviante) costituisce "una nuova infelicissima razza": la
costruzione di uno stereotipo attraverso
l'appiattimento del sociale nel biologico.
Questo, però, è sufficiente a far riconoscere, in Lombroso,
in maniera pressoché unanime,
il geniale pioniere dell'antropologia criminale. La rozzezza, il mucchio
dei fatti
portati a costruire una "scienza" che se ne diceva serva, prova
ancor più l'immediata necessità di sicurezza che la classe
dominante pretendeva come risposta. Risulta,
come del resto anche dai Palinsesti del carcere
(Torino, 1888), la sordità assoluta di Lombroso di fronte alla
storia che ancor oggi
tali reperti sanno raccontare con chiarezza.
Ne La scienza infelice
la scelta delle immagini e il commento, spesso penetrante, sempre comunque
sensibile
al significato di classe e di miseria, forniscono una prima valida guida
alla realtà
del discorso lombrosiano.
Si è visto un elemento progressivo nella scuola positiva di diritto
penale in quanto
attenta alla figura del delinquente, più che al delitto come
infrazione volontaria
di una norma giuridica razionale e universale. In contrapposizione
all'operare astratto
della "scuola classica" quella positiva avrebbe ben individuato
la sfera della difesa
sociale, della totalità rispetto al singolo potenzialmente deviante.
Le ambiguità
di questo tentativo (con cui già Labriola fece i conti) emergono fin
da una prima
e breve ricostruzione teorica interna al quadro lombrosiano. Non ci
troviamo di fronte ad
una società sicura di se stessa e dei suoi valori per cui la
deviazione e la degenerazione
rappresenterebbero solo lo scarto di una macchina che funziona a pieno
ritmo e quindi una indiretta conferma: siamo davanti ad un inquieto campo
di forze che non suggeriscono
una lettura univoca. Manca un ordine logico dato. La violenza appare come
necessità:
della società sul diverso e del diverso sulla società. Il
darwinismo ha distrutto ogni salda certezza, l'uomo è l'animale
selvaggio che una lunga, costrittiva
educazione, può domare. La civiltà ha mutato solamente in
superficie questo dato
antropologico di violenza: l'equilibrio è sempre instabile,
"sottile è la vernice
della nostra civiltà" come mostrano le frequenti sommosse
sociali "ma anche in tempo di calma
lo studio dei costumi dei nostri popoli ci prova che malgrado le vicende e
gli incrociamenti
essi assai di poco variano dall'epoca barbara" (Il
delitto politico e le rivoluzioni,
Torino 1890, p. 7).
Seguendo Claude Bernard, siamo lontani dal considerare salute e malattia (e
di conseguenza
ragione-follia, onestà-criminalità tradotte in termini di
fisiologia-patologia) entità
astratte, ipostatizzate, in lotta per l'organismo. La differenza è
solo di grado, di equilibrio di fattori. Lombroso si richiama anche su
questo punto (come su
molti altri) al quadro teorico della cultura europea più
conservatrice che, dopo
la Comune, cerca nella "scienza" lo strumento privilegiato per
esorcizzare il furore
popolare e le radici sicure per il proprio progetto di politica
"sperimentale" in una pretesa
sfera di neutralità.
In particolare il rapporto è direttamente individuabile con Taine:
tra il francese
e l'italiano correvano reciproci riconoscimenti di stima e di dipendenza.
Leggiamo
in Taine: la ragione è "un'acquisizione tardiva ed un composto
fragile" "l'uomo è
pazzo come il corpo è malato, per natura; la salute del nostro
spirito, come la salute dei
nostri organi, non è che un successo frequente ed un bel caso"
negli spiriti superiori.
"Quanto la ragione è zoppicante nell'uomo, tanto essa è rara nell'umanità" e non
recita mai la parte principale: "questa appartiene ad altre potenze
nate insieme con noi,
e che, a titolo di primi occupanti restano in possesso
dell'appartamento". L'uomo
è essenzialmente animale, "da ciò deriva in lui un fondo
persistente di brutalità
di ferocia, di istinti violenti e distruttori". Questi non si
manifestano in tempi normali,
di qui l'illusione che tali passioni "si siano calmate, ammansite;
vogliamo credere
che la disciplina loro imposta è diventata naturale, e che a forza
di scorrere fra
due dighe, esse hanno preso l'abitudine di restare nel loro letto. La
verità è che come
tutte le forze brute, come un fiume o un torrente, esse non vi restano che
per costrizione;
è la diga che con la sua resistenza fa la loro moderazione" .
Le leggi, i codici, i tribunali sono meccanismi di violenza necessari per
reprimere
e controllare le forze selvagge della "bestia umana". "In
fondo a tutti questi ingranaggi
si vede sempre la molla finale, lo strumento efficace, voglio dire il
gendarme armato contro il selvaggio, il brigante ed il pazzo che ciascuno
di noi racchiude, addormentati
o incatenati, ma sempre vivi, nella caverna del proprio cuore" (Taine,
L'ancien régime,
trad. it. Boringhieri Torino 1961 pp. 342-47). Lombroso è
influenzato da queste posizioni:
da qui l'impurezza dello spazio occupato dalla giustizia nell'evoluzione
storica,
non più riflesso, come nei presupposti della "scuola
classica", di un ordine, bensì strumento per imporlo come
equilibrio sia pure instabile e dinamico ("io ho potuto
dimostrare nel mio Uomo delinquente
che moltissime delle pene contro i delitti, non erano a loro volta, che
nuovi delitti..."La funzione sociale del delitto,
Palermo 1896, p. l 87 )
Frutto di questo equilibrio è la norma, ogni volta feticizzata e
fermata, ma non ci
sono certezze, solo paure. Il fondamento psico-biologico è la
categoria del misoneismo.
Il misoneismo, primo strumento che garantisce la permanenza della vita e
della forma, si riscontra ad ogni grado dell'essere, con un rozzo
psicologismo elevato a visione
metafisica del mondo. Al genio, al degenerato sono affidati gli elementi di
rottura
e di movimento. La semplicistica spiegazione biologica è propria
dell'epoca: l'atrofia di certi organi e le tare fisiologiche di cui la
mancanza di senso morale è espressione,
fanno sviluppare eccezionalmente altri organi ed altre capacità.
"Perciò io ho potuto
dimostrare che l'uomo naturalmente, eternamente conservatore, non sarebbe
progredito mai senza il combinarsi di circostanze straordinarie che
mettevanlo nella necessità
di superare il dolore della novazione per confortare altri più
grandi dolori, e della
comparsa di alcuni uomini singolari, come i pazzi di genio e i mattoidi,
che per
la anomala organizzazione avendo un esagerato altruismo e
un'attività cerebrale superiore
di lunga mano a quella dei contemporanei, precorrono gli eventi, trascinano
alle
novazioni, senza pensare al proprio danno, il pubblico che se ne vendica
non dirado
col sangue, e fanno come gli insetti che col volare da un fiore all'altro
trasportano
un polline, cui occorrerebbe molto tempo e molti turbini per riescire
fecondo" (L'uomo delinquente,
Torino 1889, vol. I, p. 67). Non ci sembra quindi che in tal caso sia
presente nel
criminologo "l'ossessione della diversità"
(cfr. A. Pirella, Prefazione
a L'uomo di genio,
Roma 1971, p. XVI) e addirittura "la paura" (Giacanelli, cit. p.
27) verso il genio,
questa fragile e estrema produzione della natura, inserito nel quadro di
una patologia
divenuta visione del mondo, c'è piuttosto la stupita, nascosta,
quasi estetica ammirazione piccolo borghese per il diverso che garantisce
con la sua eccezionalità il
normale, quotidiano andare delle cose.
Si deve leggere piuttosto un certo disprezzo per "il vero uomo
normale": "non è nemmeno
colto, non è nemmeno erudito, esso non fa che lavorare e
mangiare--fruges consumere natus". (L'uomo di genio,
cit. p. 7). Certo neppure Lombroso può sentirlo come un modello. Non
bisogna dimenticare
le ascendenze romantiche di questo discorso sul genio, in particolare di
Schopenhauer
che larga diffusione conosce nel clima culturale del positivismo.
"Prima di tutto dei geni, anche deboli, saranno sempre più
preziosi dei talenti mediocri; ed è peccato
il perderne un solo" (Pazzi e anomali,
Città di Castello 1890, p. 296).
Ci sono quindi elementi di aristocratismo naturale in Lombroso garantiti
dal "darwinismo".
Vedendo nell'Internazionale, nel movimento di classe una causa
dell'incremento del
delitto in Italia, difende il darwinismo e il positivismo dall'accusa di
essere la causa del nascere e del diffondersi delle idee rivoluzionarie:
"Il Darwinianismo,
prendendo le mosse dalla selezione della specie, dal trionfo della bellezza
e specialmente
della forza, dimostra essere impossibile, nella natura, la completa
uguaglianza e
naturale e necessaria, quindi, l'aristocrazia; che se negli animali
inferiori la è
costituita solo dall'energia muscolare o dalla ricchezza di connettivo,
nell'uomo
lo sarà invece dalla forza intellettuale e dal carattere"
(Sull'incremento del delitto in Italia,
Torino 1879, p. 9) (Per la teoria del genio in Lombroso cfr. anche quando
dice C.
A. Madrignani, in Cultura narrativa e teatro nell'età del
positivismo,
Laterza 1975, p. 38 e sgg. )
Singolari ma significative le lamentele del Lombroso intorno agli anni '90
(divenuto
professore di clinica psichiatrica a Torino) riferite dalla figlia Gina
cioè che
"i tempi si erano fatti mediocri e banali si eran fatti anche i
pazzi" di contro
alla ''sconfinata immaginazione" degli ''strani alienati" e
"fecondi pazzi" ''che così avevano
eccitata la sua mente a Pesaro e a Pavia" venti anni prima.
"Cretini dementi, epilettici,
alcoolisti, paralitici generali: ecco quanto trovò nella nuova
clinica e anche questi ultimi di una modestia che sconcertava..." (G.
Lombroso, cit. p. 293).
Il deviante, l'anomalo, il genio sono visti come fattori di movimento
storico la cui
forza e potenza dirompenti sono da sottoporre al controllo del
"tecnico" che si fa
garante della norma: per regolare, trasformare, ordinare. Il progresso
ordinato può
nascere solamente dalla tensione tra il misoneismo come fattore
stabilizzante di equilibrio
e l'elemento di rottura. Al "tecnico" è affidata la
possibilità di incanalare l'ineliminabile
violenza, non lasciando libere le forze distruttive in gioco (cause di
rivolte e sedizioni). La "scienza" pur essendone consapevole
nasconde il processo, la
genesi, dietro il feticcio del fatto che diviene il fondamento per
assicurarne il
dubitoso edificio. Alla fluidità precedente l'intervento del
tecnico, succede l'ottusa
rigidezza del catalogare e distinguere.
Pagine e pagine di misure, confronti, indici, tavole, ricerca ossessiva di
anomalie
fisiologiche e una congerie di fatti, fatterelli, aneddoti (il tutto faceva
già sorridere
per l'ingenuità e la rozzezza i più avvertiti tra i
contemporanei) servono a costruire le tipologie umane fissate in tutte le
loro più minuscole gradazioni, dal normale
al delinquente. Normale è l'essere biologicamente assuefatto,
attraverso l'educazione
costrittiva, alle regole che danno coerenza all'organismo sociale
così come negli
animali la legge del "genere" sovrasta i singoli. In questo
quadro non è peregrina
(anche se ridicola) l'enorme casistica che Lombroso ci fornisce di delinquenza nelle
piante e negli animali, anzi, essa ci offre una chiave interpretativa per
comprendere
la definizione stessa di anormalità.
La norma segue l'evoluzione ed è espressione del livello raggiunto
dalla specie, chi
sta al di sopra di tale livello (genio), o al di sotto (essere atavico),
è il reo
che necessariamente porta in sé, nel suo organismo le ragioni di
tale colpevole frattura. "Si domanda come era il cranio di coloro che,
nei tempi barbari commettevano atti,
come eresia, bestemmia, stregoneria, puniti allora dalle leggi, mentre ora
non lo
sono più. Ora io ho dimostrato che i delinquenti contro l'uso,
contro le religioni,
erano allora
i veri delinquenti, mentre i rei d'omicidio molte volte non erano
considerati come
delinquenti nelle epoche selvagge. Che, se quelli erano i veri delinquenti
(eccettuati,
naturalmente, quelli a torto perseguitati per solo sfogo di odio teologico
e politico), è naturale che dovevano avere gli stessi caratteri dei
delinquenti odierni; anzi,
che è più, nella I edizione ho dato la descrizione di 12
crani di rei medioevali,
che avevano le stesse anomalie dei nostri" (L'uomo delinquente,
vol. I cit., p. XLIV-XLV).
E quindi la misura
e l'azione divengono, in questa logica, direttamente politiche: "Gli
è che il criminale
è, per la sua natura nevrotica ed impulsiva e per odio alle
istituzioni che lo colpirono
e che lo inceppano, un ribelle politico perpetuo, latente ... costoro sono
naturalmente e per interesse anti-misoneici: odiano lo stato presente,
credendo che non
l'ordine naturale, ma l'ordine di quel dato Governo costituito sia quel che
li frena
e li punisce..." (Lombroso-Laschi, n delitto politico e le
rivoluzioni
cit. p. 141). Le gradazioni quantitative che si pongono tra un tipo e
l'altro scandendo
il fluire continuo del reale, in ultima analisi divengono ipostatizzazioni
metafisiche
di razze qualitativamente diverse fra gli uomini. Si ripercorre una
distanza segnata dal disprezzo moralistico che si salda indissolubilmente
al giudizio preteso neutrale
del tecnico.
Fra i due estremi del ''criminale nato", assolutamente diverso, e
l'onesto, c'è tutta
una serie di "tipi", di anelli di congiunzione che fondano in
natura i vari aspetti
della devianza. Ma anche la ''normalità" ha le sue
naturali
gradazioni e diversificazioni, su queste si modellano i ruoli sociali:
maschio e femmina,
bianco e nero, uomo del nord e uomo del sud, contadino operaio, scienziato
etc. Così
si crea, una rete che viene a coprire e a fissare, attraverso
generalizzazioni e
banalità di ogni sorta, ma anche attraverso una veste scientifica
con apparenze pericolosamente
neutre, tutto il tessuto sociale. Per questo le teorie che il nome di
Lombroso richiamano
hanno un'importanza che va ben al di là di una polemica fra una
vecchia e una nuova scuola penale. É il tentativo di dare una
spiegazione globale e unitaria
della realtà, dall'inorganico alla storia.
Di fronte a questo, buona parte del socialismo italiano, fino a Labriola,
nonché mostrare
una minima autosufficienza teorica, non fa altro che ripiegare nella
ricerca, all'interno
di quella stessa cornice di darwinismo sociale che serviva all'imperialismo
e al razzismo, di un angolino per speranze di riforme, di razionalizzazioni
contro
parassitismi e ingiustizie nella distribuzione delle ricchezze.
C'è la fede in una evoluzione per cui la ''vera" natura (il
fisiologico) prevalesse
magari, semplicemente, attraverso gli ''onesti" sulle falsificazioni
apportate dalle
ingiustizie economiche nella lotta per l'esistenza (il patologico). Per
tutti basterà
ricordare le posizioni espresse dal Ferri nel suo Socialismo e
scienza positiva. Darwin, Spencer, Marx
(Torino 1894).
Estremamente significativa nella sua rozzezza, l'argomentazione che, utilizzata da
Lombroso per il caso Passanante, viene ripresa, con intimo compiacimento,
con le
stesse parole, anche a "chiarire" e classificare il fenomeno
Davide Lazzaretti (cfr.
anche La scienza infelice,
che giustamente gli dedica alcune pagine, pp. 129-140). Due grossi
avvenimenti sintomo,
se non altro, del forte disagio sociale, ognuno con le proprie specifiche
caratteristiche,
sono appiattiti e risolti nella patologia individuale. Gramsci analizza nei
Quaderni
il significato storico-sociale della singolare figura di Davde Lazzaretti e
del suo
movimento esprimendo anche un definitivo giudizio critico sull'operazione
di Lombroso
e di altri autori che andavano nella stessa direzione. (Cfr. in
particolare, Quaderni
III, Einaudi 1975, p. 2279-83; cfr. anche E. J. Hovsbawm, I ribelli,
Einaudi 1966, p. 96105).
Dal brano su Passanante, risulta senza veli anche la concezione del
"normale" e la
stabilità del ruolo sociale biologicamente prefissato. Che uno
studente di liceo,
che un impiegato qualunque sia preso dal ticchio di leggere tutto il giorno
giornali
e scombiccherare grossi quaderni dalle elucubrazioni più volgari e
spropositate, io non
ci troverei nulla a ridire (la nuova Biblioteca Elzeviriana sarebbe
lì a provarcelo);
ma che un cuoco, anzi uno sguattero, acuisca l'ingegno maggiore che natura
gli diede,
non nell'ammannire nuovi intingoli, ma nello scrivere continuamente, nel
progettare
repubbliche ideali, come non l'oserebbe forse attualmente Mazzini, e nel
continuarvi
anche quando non trova alcuno che gli badi, tanto da ridursi alla fame, qui
troviamo
una di quelle specie di eroi che, piuttosto di toccare le soglie del
Walhalla, raggiungono
o, almeno rasentano quelle del manicomio, tanto più se egli è
di quelle regioni dove
l'ideale delle basse plebi difficilmente si spinge verso le alte questioni
politiche e morali, dove, per servirmi dei detti dell'illustre statista
napoletano Rocco De
Zerbi, "l'idealismo ha poca presa, dove la fede è sostituita
dalla speranza, speranza
di spender meno negli onesti, guadagnar di più nei meno onesti e
bisognosi, dove
la tendenza non è già l'entusiasmo per un principio, per
un'idea, ma per un materialismo
politico, che consiste, in fondo, nel voler pagare 10 lire di meno
all'agente delle
tasse, od aver un posto al Banco di Napoli, o una croce da cavaliere e, nei
più rispettabili e delicati, nel non aver fastidi ed essere
ripettati dagli altri". Quando in
un simile ambiente un uomo, senza una speciale educazione, si caccia dietro
ad ideali
così diversi da quelli della sua classe, è certo anormale:
potrà essere un genio,
un Giotto da pastore trasformabile in pittore; ma se questo pastore
trascura da una parte
le pecore e dall'altra mi traccia solo degli sgorbi, indegni persino di un
imbianchino,
allora comincio a dubitare, non che si tratti di un vero pazzo, ma di
quella forma
intermedia che io chiamai già del mattoide... (Considerazioni
al processo Passanante,
in Delitti vecchi e delitti nuovi,
Torino 1902, p. 202).
Abbiamo voluto riportare per esteso la citazione perché, di
passaggio ma non casualmente,
dà anche un esempio di comoda e sbrigativa psicologizzazione
antropologica del 'tipo'
napoletano. Lombroso riporta, per oggettivare e suffragare positivamente il
giudizio, la testimonianza di un 'esperto', l'On.. De Zerbi, seguace della
nuova scuola.
L'utilizzazione di categorie materiate di un rozzo e deteriore
psicologismo, com'è
noto (ma va ricordato), non fu certo neutra o 'riformista' ma funzionale al
diffondersi
di teorie razziste sull'inferiorità biologica e 'atavica' dei
meridionali che rispondevano
a tanti scomodi perché.
Il darwinismo sociale, il positivismo lombrosiano furono il terreno fertile
per il
prosperare di tutta una sottocultura di medici, giuristi, avvocati che grandemente
influenzò l'opinione pubblica e che risolveva l'impegno in una
applicazione empirica,
assidua, ad ogni fatto, anche di cronaca, per funzionare da raccolta di
luoghi comuni,
pregiudizi razionalizzati e restituiti sotto il nome di 'scienza' (Su
questo cfr.
in particolare Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale,
Roma 1966 pp. 135-36 e sulle sue orme M. Salvadori, 11 mito del
buongoverno,
Torino 1972 p. 184 sgg.).
In considerazioni successive sul caso Passanante, dopo aver citato gli
esempi delle
pazzie epidemiche del medio evo "che si ripetono nei nihilisti di
Russia, nei mormoni
e nei metodisti d'America, negli incendiari Normanni, ed ora in quelli
della Comune
di Parigi" assimilati per quanto riguarda l'Italia "ai torbidi
suscitati nell'Emilia
dal macinato, nei quali, secondo uno studio accuratissimo dello Zani
appunto presero
parte sette alienati", propone come risposta risolutiva per la difesa
sociale l'istituzione del manicomio criminale e così conclude alla
ricerca di una comune sicurezza:
"Forse che non era egli più consolante il poter dire che non fu
sano di mente quello
che attentava il nostro re, che il tentativo del regicidio non fu
l'espressione delle
passioni di un partito e nemmeno d'un individuo, ma l'effetto di una
malattia...?" (Pazzi e anomali, cit.
pp. 343-44).
Se dal quadro generale, tracciato a grandi linee, scendiamo quindi alla
concretezza
dei singoli interventi sul sociale (qualche altro significativo esempio lo
daremo
discutendo brevemente l'introduzione del Giacanelli) ci sembra di vedere
una conferma
della funzione ideologicamente repressiva svolta dallo stesso Lombroso. Non
ci sentiamo
infatti di poter accreditare l'immagine che, pur all'interno di
un'equilibrata e
articolata lettura del fenomeno Lombroso, emerge dalle pagine del
Giacanelli. Egli
inserisce la posizione del criminologo nel movimento generale del processo
costitutivo dello
stato e della coscienza unitaria nell'ambito di forti contraddizioni: il
ruolo dell'intellettuale
è notevole per la razionalizzazione riformista di una patologia
sociale. Lombroso apparterebbe all'ala più avanzata e radicale di
questa borghesia che non
si rifiuta al confronto con i problemi reali, non si nasconde che dopo
l'unificazione
il lavoro è tutto da compiere per una vittoria sull'arretratezza.
"É--scrive Giacanelli--tra quelli che si collocano più a
sinistra rispetto al potere ufficiale, e si erigono
a coscienza critica di una società che indugia sul vecchio ed esita
a intraprendere
la strada della sua organizzazione più avanzata cioè
razionale, 'positiva', scientifica" (p. I l).
In realtà, nel constatare una militanza dell'intellettuale che non
identifica la sua
marcia con quella delle classi dirigenti, si concede poi un po' troppo a
Lombroso
con questa definizione. Ci sembra che il "tecnico" voglia imporre
una "sua" norma,
certo immanente e razionalizzatrice, critica di ogni residuo
spiritualistico, ma tale da
non incrinare il fondo sostanzialmente apologetico. Non di
"appropriazione scientifica
dei grandi problemi nazionali" (p. 13) si tratta, bensì di far
passare, esorcizzandoli, i grandi problemi attraverso le maglie
dell'ideologia "scientifista", garantita
dalla superiore neutralità del "tecnico".
É presente in Lombroso il mito, diffuso dopo la Comune, di una
politica "sperimentale"
di cui lo scienziato si fa depositario, una sorta di ingegneria sociale
lontana dalle
astrazioni e passioni del giacobinismo (basti pensare ai Dialoghi
filosofici
di Renan col sogno inquieto di una aristocrazia dei "savants" che
dominano saldamente
col terrore una società naturalisticamente gerarchizzata, ed alle
posizioni di Taine).
In nome dei fatti "positivi" e del rifiuto a brutalizzarli e violentarli come facevano
i rivoluzionari (malati dell'ideale) di Taine (e, ripetendo la stessa
follia, i comunardi),
si vuol costruire un ordine che tenga conto, come si è visto
dell'ineliminabile fondo di violenza nella "bestia umana". La
democrazia, il parlamento, sono oggetto
di attacco da parte di Lombroso, che si muove sulle orme della
contemporanea cultura
reazionaria francese. Non è in nome di una reale
"rappresentatività popolare" di
contro all'accentramento (p. 13) come sembra credere Giacanelli, che
Lombroso critica
la "superstizione parlamentare" ma seguendo la logica del
"Senatores boni viri, senatus mala bestia"
(cfr. Il momento attuale, p. 19).
Non dimentichiamo che Lombroso fu, se non il padre, come pretendeva la sua
scuola,
certo uno dei padri della psicologia delle folle e che Scipio Sighele era
uno dei
suoi allievi più fedeli e stimati.
Lombroso afferma, citando le sue fonti francesi, che il parlamentarismo
è "la più
grande delle superstizioni moderne", che il suffragio universale
è un pericolo in
quanto "corrisponde al dominio del numero sul merito, della
quantità...". "É il benessere,
non il dominio dei più che bisogna cercare, e il primo esclude
necessariamente il secondo,
come la salute e la ricchezza di un bambino vanno in ragione inversa della
sua piena
libertà, della sua onnipotenza....L'aristocrazia della scienza...
è la sola che possa rendere la borghesia superiore al
proletariato". Il valore del voto dovrebbe
essere quindi proporzionato al merito e tale che controbilanciasse
l'influsso del
numero. In armonia con il quadro si auspica infine l'istituzione di
"ministeri affatto
tecnici, e sottratti ad ogni influenza di partito..." (Il
delitto politico e le rivoluzioni,
cit. p. 511-523). Lombroso tornerà a più riprese sulla
"follia" delle masse basti
ricordare, per tutte la grossolanità con cui diffonde é
completa le teorie del Taine
nello scritto (conferenza) La delinquenza nella rivoluzione francese
(Milano 1897). La tesi storiografica viene annunciata con invidiabile
imperturbabilità:
"Quella che si suole chiamare Rivoluzione dell'89, non fu che una
grande rivolta
e un grande delitto politico che servì ad aumentare una triste serie
di comuni delitti..." (P. 3).
Questa assurda sequela di crimini e aneddoti di gratuita violenza
raccontati con compiacimento
letterario e non senza un certo gusto sadico, offre un tipico esempio della
pretesa
'scienza aperta' di Cesare Lombroso, di quell'opera di pubblicista
infaticabile che diffondeva e 'popolarizzava' le sue teorie. Ogni attentato
anarchico, in qualunque
parte del mondo avvenisse, non mancava di avere, fra i tanti, anche il
commento della
scienza lombrosiana: un rimasticamento puntuale di vecchie sciocchezze
generali che ripercorrevano la storia del delitto politico: da Bruto alla
Corday, a Orsini,
fino ad arrivare, già stanca, all'episodio da illuminare. E qui
allora non rimaneva
a Lombroso che accettare, come dirà Pietro Gori, la "sozza
versione questurinesca"
magari facendo vedere, in più, il determinante influsso del clima o
le ascendenze pellagrose
del reo. Si comprende perciò il largo successo internazionale di
questi suoi scritti
nell'opinione media, al di là dello 'scientifico' sospetto di
risultare ingrato sia
agli anarchici che agli sbirri (Gli anarchici,
Roma 1972, p. 7).
Per quanto riguarda il "decentramento amministrativo"
(Giacanelli, cit. p. 13), l'adesione
della scuola positiva a questa tematica agitata dai gruppi più
progressisti, non
è certo priva di ambiguità. Non si può far discendere
tale posizione, come apologeticamente è stato fatto, unicamente
dalla tradizione dei Cattaneo e della parte più
avanzata del risorgimento; infatti l'adesione al decentramento è
guidata spesso da
convinzioni razzistiche: la "scienza" aveva insegnato
l'inferiorità biologica e la
pericolosità d certe popolazioni e ciò dettava la misura
prudenziale di non accomunare e mescolare
troppo le razze superiori del nord con le inferiori del sud e delle isole.
Queste
le posizioni del Sergi, dell'Orano, che vengono energicamente sostenute dai
sedicenti socialisti Ferri e Niceforo.
Certo la posizione del Lombroso appare in molti casi più sfumata
(cfr. per esempio
lo scritto In Calabria)
per il desiderio che la scienza si ponesse come reale sostegno e non
dissolvente della
raggiunta e fragile unità. In altri scritti però le
convinzioni razzistiche emergono
chiaramente anche su questo punto: "É questa politica del
distacco e dell'autonomia
conviene, talora, anche in una stessa nazione, quando, per le condizioni di
razza,
vi sia una disuguaglianza enorme. Allora una legge uniforme come un vestito
uguale
applicato a membri disuguali, produce dolore e danno e quel continuo
malessere che
si esplica colla rivoluzione..." (Il delitto politico e le
rivoluzioni,
cit. p. 502).
Per il problema dell'educazione (cfr. Giacanelli, pp 1314), centrale negli
interessi
delle classi dirigenti dell'Italia unita, a nostro parere bisogna
distinguere il
discorso di Lombroso dalle posizioni più aperte presenti nell'ambito
del positivismo.
L'educazione agendo solo sullo strato avventizio del carattere e quindi
incapace di operare
modifiche in profondità, non è certo un fattore di
rigenerazione o tanto meno, di
coscienza critica, ma di quietistico adattamento al proprio stato
("normale"). Per
questo si dà una certa importanza in Lombroso, come in Sergi,
all'educazione delle classi
che meno sembrano conciliate con la propria condizione: operai, artigiani,
piccola
borghesia, per confermarli nella loro situazione di onesta
produttività. Scetticismo
si nutre invece nei confronti di una educazione indirizzata alle classi
contadine,
chiuse nel loro "atavico" isolamento, incapaci di un sostanziale
sviluppo.
La problematicità era molto diffusa: il misoneismo
l'Idiotismus des Landslebens
erano dati "scientifici" con cui bisognava fare i conti.
Così si esprimeva il Ferri:
i cervelli dei contadini sono "così anemici di idee, non tanto
per la miseria fisiologica
cui sono troppo spesso condannati quanto, piuttosto, perché essi
sono realmente per ragioni sociali ma anche naturali, una stratificazione,
che rappresenta una anteriore
fase dell'evoluzione psichica umana" (Ferri, Socialismo e
criminalità,
Torino 1883).
L'educazione deve essere soprattutto tecnica; questa dà
dignità all'operaio e lo rappacifica
con la propria funzione.
In Lombroso la polemica contro l'educazione classica è scopertamente
politica: il
classicismo con la sua esaltazione delle virtù
"astratte" (libertà, coraggio, etc.) e dell'uomo in
sé, è fomentatore di rivoluzioni:
"... ecco perché, mancando così di una solida base, il
giovane si getta in braccio
alla prima novazione, anche la più errata, la più discorde
dai tempi, quando gli
ricorda la male intravveduta antichità. Chi ne dubitasse ricordi il
classicismo dei rivoluzionari
dell'89..." e, citando Ferrero, "Tutta l'educazione classica che
altro è se non una
glorificazione continua della violenza, in tutte le sue forme?"
(Gli anarchici,
Roma 1972, p. 41). Anche in Lombroso, Rousseau è l'esempio
"geniale" di quali conseguenze
può avere il connubio fra classicismo (l'uomo astratto e uguale
nella "ragione")
e follia per cui si misconosce la "realtà" sperimentabile
delle differenzedi razza,
clima, sesso per ridurre tutto alla volontà generale e al contratto
sociale.
Questo tipo di problematica ha, ancora una volta, le sue matrici puntuali
nel Taine
(del resto molto spesso citato) e nelle polemiche contro lo spirito
classico-astratto
dei giacobini nate in ambiente francese dopo il '70 e diffuse in tutta la
cultura
borghese europea. Taine caratterizza del resto tutta la sua opera su
Le Origini della Francia contemporanea
come una analisi puntuale del 'germe patogeno' del classicismo essenziale
per comprendere
i principi dell'89 e le loro funeste conseguenze. "In fondo, la
Francia è stata demolita
e poi daccapo ricostruita sulla base di un falso principio, che si muove
dietro uno spirito angusto e superficiale: lo spirito classico.
Dalla prima fino all'ultima frase del mio libro questo spirito costituisce
l'unico
e principale oggetto d'indagine" (H. Taine, Sa Vie et sa
Correspondence,
vol. IV, Paris 1907. p. 124)48.
Siamo ormai ben lontani dallo spirito con cui Cattaneo trattava
dell'istruzione tecnico-scientifica
o umanistico-classica. Ancora significativo è l'atteggiamento
sostanzialmente pessimistico
nei confronti dell'educazione nel suo complesso: siamo in una problematica
in cui il biologico è il dato insormontabile: razze inferiori,
ataviche
o criminali, rei nati, sono il limite estremo su cui l'educazione non
può niente.
Lombroso afferma che ogni uomo, da bambino, è un primitivo, quindi
è fisiologicamente
un criminale. L'educazione ha una sua forza soltanto di inibizione, non
certo di
potenziamento di capacità positive, in quanto provoca il meccanismo
dell'adattamento
alle regole della società attuale (in cui la criminalità,
individuale, è morbosa perché
priva della funzionalità che le è propria in un ambiente
primitivo).
L'educazione impedisce che tutti rimangano criminali ma non può
certo impedire agli
organismi predisposti-- impossibilitati dalla propria organizzazione fisica
ad accogliere
gli ''strati avventizi" del carattere--di restare pericolosi. Verso
questi ultimi
la società ha un solo compito: la repressione. Ricordiamo, di
passaggio, le posizioni
assunte dalla scuola positiva verso il codice Zanardelli, accusato di
eccessiva mitezza
(Lombroso recrimina tra l'altro l'abolizione della "pena più
sensibile di tutte,
la morte"): "Ma questo è piuttosto un difendere i rei
dalle vittime, che le vittime dai
rei..." (Troppo presto, Appunti al Nuovo Codice penale,
Torino 1888). L'atteggiamento è conseguente: la scuola condusse una
assidua autodifesa
contro le illazioni umanitarie che si potevano trarre dalle nuove teorie
per non
parlare dei casi più aberranti, dalla logica estrema, di eugenetica
razzista di molti
seguaci di Lombroso.
Lombroso distingue "educazione" da "istruzione
alfabetica" la quale può cambiare la
natura del delitto ma aumenta il numero dei reati. Di conseguenza in una
operetta
del 1879 (Sull'incremento del delitto in Italia)
viene indicata come un pericolo (p. 80). Anche nella polemica con Gabelli
ed altri
autori, Lombroso a chiare lettere si esprime contro l'istruzione alfabetica
per le
classi pericolose e si fa coraggioso portavoce di una lotta contro il
pregiudizio
riassunto dal noto errore di Guizot:"Ad ogni scuola che aumenta
scemerà una prigione" (Polemica in difesa della scuola
criminale positiva,
Bologna 1886 p. 24). In ogni modo, per educazione bisogna intendere:
"una serie di
impulsioni, moti reflessi sostituiti lentamente a quegli altri che furono
cause dirette
o almeno favorevoli al mantenimento della prave tendenze...."
(L'uomo delinquente,
cit. vol. I, p. 132), una sorta di rigido condizionamento
fisico-psicologico che mai
porterà ad un dominio consapevole sulla realtà.
Dato quanto si è detto finora, risulta poco credibile un Lombroso
che senta fortemente
il problema di una alfabetizzazione di massa e creda veramente all'esigenza
di educare
il popolo (Giacanelli, p. 14). La stessa battaglia contro la pellagra, che
fu indubbiamente quella che Lombroso condusse con più apertura verso
il mondo contadino,
non fu certo un portare "alla base" il problema per intima
convinzione (Giacanelli,
cit. p. 14).
Permane, a viziare l'atteggiamento di fondo, la forza del pregiudizio verso
i crani
atavici dei contadini, pressoché irrecuperabili ad un ordinato
progresso, facilmente
preda di mattoidi come Lazzaretti o del furore anarchico.
Lombroso crede ad una scienza ''separata": il contadino pellagroso
è, prevalentemente,
oggetto di esperimento, "fatto" e reperto da valorizzare per
rifarsi dei sarcasmi
e delle delusioni accademiche. Infatti definisce "povere arti degli
avversari" lo
scendere verso l'opinione pubblica "abbandonando le serene regioni
della scienza" cui si
sentì costretto per vincere "le risa degli ignoranti e
l'incredulità dei benevoli"
(L'uomo delinquente,
cit. p. V).
Nelle Memorie di un pellagrologo,
pubblicate postume, Lombroso rivela con chiarezza ancora maggiore il suo
atteggiamento
verso la diffusione "popolare" della scienza: per quanto riguarda
i Comizi Agrari,
Congressi medici, "i discorsi furono molti, né vi mancarono i
soliti plausi e i banchetti, ma purtroppo l'unico risultato fu
l'indigestione di alcuni dei membri" "Pensai
allora di rivolgermi direttamente al popolo minuto, con pubblicazioni
analoghe a
quelle canzoncine popolari, ad un soldo che formano la sua delizia
esclusiva. Ma
delle diecimila copie sparse per mezzo dei rivenditori e dei rivenduglioli,
poche giunsero alle
capanne a cui le destinava; perché il contadino che trovava in
questa diffusione
una specie di offesa, una specie di denunzia palese dell'esistenza di quel
morbo
che egli pur soffrendo, si vergognava di vedersi attribuire, bastonava di
santa ragione il
venditore, che non volle più saperme di quella merce" (cit. in
Gina Lombroso, op.
cit., p. 169).
Dopo la delusione, scontata, che gli veniva dal popolo delle campagne, si
rivolse
agli uomini di governo (e non viceversa, come afferma Giacanelli, cit. p.
14) proponendo,
inascoltato ancora una volta, iniziative di prevenzione nei confronti della
malattia ma anche per presentare loro una proposta più ampia a
livello sociale: decidersi
a colpire i disonesti parassiti per impedire che i poveri onesti e
angariati cercassero
consolazione nel prete e nel paradiso o, minaccia ben più urgente,
fossero trascinati
in pericolose rivolte, (ib.).
Questo è forse il punto di arrivo più progressista, alla
Villari, a cui può giungere
Lombroso. Questa buona, moralistica volontà, che non scende mai dal
"noi" (classi
dominanti), ma che spesso è capace di una notevole forza di denuncia
contro singoli
agrari profittatori e disonesti, non incrina, però, l'effetto di
nascondimento che la teoria,
nel complesso, ha. Vediamo brevemente perché.
Per Lombroso la malattia è causata non da una alimentazione
esclusivamente maidica
ma dall'uso ripetuto di granoturco guasto. Ne veniva fuori un quadro, tutto
sommato,
più rassicurante rispetto alla tesi dell'insufficienza alimentare,
in quanto non
erano rapporti strutturali ad essere messi in forse. L'alimentazione a base
di maiz guasto
è dovuta infatti da un lato a casi di disonestà malvagia di
commercianti o agrari,
favoriti, questi ultimi, da patti colonici particolarmente iniqui,
dall'altro alla
rozza psicologia alimentare che Lombroso attribuisce ai contadini. Pregio
del maiz per il
contadino è infatti che "occupa un gran volume nel suo
stomaco... Questa smania della
quantità in confronto della qualità dell'alimento, è giunta nel contadino a tal punto
che non solo egli cambia il frumento anche a pari prezzo contro la polenta
che è più
pesante ma cosa davvero incredibile, preferisce mangiare il maiz già
putrefatto quando
è rifiutato dagli animali meno intelligenti, quali il pollo e il
maiale" (Del maiz in rapporto alla salute,
in La rassegna settimanale
1 878).
Si propone quindi la solita moralizzazione attraverso un minimo di
controllo sui padroni
e l'obbligatorietà di essiccatoi nei possedimenti agricoli. Per
quanto riguarda la
dibattuta abolizione della tassa sul macinato, Lombroso è favorevole
soltanto alla
sua eliminazione per i grani inferiori: "Per lo meno il contadino
mangerebbe sano il
maiz, se si scemasse la tassa su tutti i grani sarebbe inutile, tanto il
contadino
continuerebbe a mangiare maiz" (Macinato e pellagra,
ivi, 7 luglio 1878).
L'immodificabilità dell'atteggiamento alimentare dei contadini non
si discute, Lombroso
la prova confermando il suo determinismo razzista: "Il popolo nostro,
delle campagne
almeno, è trascinato alla preferenza di alcuni suoi alimenti poco
salubri così inesorabilmente che non vi è tariffa, né
tassa, né disposizione di legge che valga a mutarvelo.
L'italiano del nord e del centro mangerà il suo granone come i
siciliani i loro fichi
d'India, ed i napoletani i loro maccheroni anche se gli si provasse esserci
dentro una trichina od un alcaloide" (ibidem).
Questo modo "psicologico" di giustificare comodamente le forzate
abitudini alimentari
di popolazioni ridotte spesso al limite vitale è estremamente
significativa con la
sua forza di nascondimento. Del resto, il maiz, di per sé, sarebbe
un ottimo alimento
o almeno non nocivo. Lo confermò, racconta Lombroso, anche un
esperimento condotto
in corpore vili
da un suo avversario. Questi aveva distribuito ad una famiglia di
contadini, per molto
tempo, polenta sana sorvegliando che non mangiassero altro alimento e
"con suo gran
dolore non li vide diventar pellagrosi" (La pellagra in Italia
in rapporto alla pretesa insufficienza alimentare,
Torino 1880, p. 11).
Il tipo di esperimento non suscita neppure una parola di condanna in
Lombroso, mentre
grande e sincera è l'indignazione per la 'scorrettezza scientifica'
di quello studioso
che non gli aveva comunicato i risultati delle ricerche suffraganti la sua
teoria.
Inoltre neppure sarebbe vero che i contadini delle zone pellagrose si
cibino esclusivamente
di maiz. Una parte dell'operetta di Lombroso sopraccitata, significativa
già nel
titolo, è volta a provare coi 'fatti' quanto varia, e in fondo
ricca, fosse l'alimentazione dei contadini che si ammalavano.
Quadretti familiari corredati di statistiche come il seguente sono
frequentissimi:
"E una sola famiglia di agricoltori, dove non c'è grave caso di
pellagra, ma pochi
ne sono affatto esenti. Sono lavoratori esemplari, come esemplari
mangiatori. La
pietanza della colazione era il formaggio e quella di desinare salame sale
ed acqua. Ogni kilogrammo
di riso ne dà quattro di minestra, ed ogni kilogrammo di farina di
melicotto ne dà
tre di polenta. Noto che non siano nell'epoca dei lavori campestri, allora
i pasti sono quattro e tutti più abbondanti". (ib., p. 67) E
d'altronde--sostiene Lombroso--"è
certissima cosa che non tutti i ricchi sfuggono alla pellagra" (ib. p.
46).
La medicina e la sociologia lombrosiana dimostrano che non è la
scarsa nutrizione
(direttamente legata alla miseria) che porta alla pellagra, ma il
granoturco guasto,
che effettivamente genera tossine nocive. É quindi naturale che sia
pure molto tardi,
nel 1902, il riconoscimento legislativo gratifichi le posizioni
lombrosiane, anche se
i sostenitori dell'insufficienza alimentare avevano fornito prove ed esperimenti
quanto, se non più, dei fautori dell'eziologia lombrosiana.
"Medici studiosi e colti, che hanno conoscenze dei luoghi ed
esperienza della malattia,
quotidianamente, per l'ufficio loro, riferiscono che il maiz di cui si
alimentano
i contadini anche più poveri e gli stessi colpiti da pellagra
è generalmente sano".
Così G. Badaloni nella sua Relazione sulla pellagra nel bolognese
(1902). Quest'ultimo
autore cita poi sue numerose esperienze confermanti la non incidenza del
maiz guasto
sulla pellagra.
A conferma dell'ipotesi dell'insufficienza alimentare si citano anche le
prime istituzioni
di locande sanitarie, per ora, per lo più, frutto di iniziative
private filantropiche,
in cui il contadino con ascendenti pellagrosi o che presentava i primi
sintomi della malattia era ammesso a mangiare pasti variati e
sufficientemente abbondanti:
i risultati delle locande per la guarigione o il miglioramento di molti
soggetti
fu eccellente. Quindi esistendo prove suffraganti almeno ambedue le teorie,
è chiaro
perché il governo optasse per quella lombrosiana: infatti persuase
"il governo con l'allontanargli
lo spauracchio della necessità di una radicale riforma
economico-sociale, quale si
imponeva ai sostenitori dell'insufficienza alimentare, della
possibilità di iniziare i provvedimenti profilattici, regolando
semplicemente con misure di polizia sanitaria
il commercio del maiz" (Antonini e Tirelli, L'opera
pellagrologica di Cesare Lombroso,
in L'opera di Cesare Lombroso,
cit. p. 127). É chiaro quindi che al di là della personale e
talvolta coraggiosa lotta
di Lombroso contro i disonesti proprietari terrieri con la denuncia di
situazioni
limite di particolare criminalità padronale (cfr. La pellagra
in Italia
ecc. cit. p. 78 e sgg.), la sua tesi fu usata dal governo come la
più comoda.
Lui stesso ha la consapevolezza della convenienza economica delle sue
proposte e si
meraviglia che la legge abbia mantenuto qualche piccola ambiguità
con lievi concessioni
ai sostenitori dell'insufficienza alimentare: "É sono un altro
avanzo delle ubbie
sulla scarsezza dell'azoto e della carne come causa di pellagra gli
articoli 11 e 12
dove si parla di alimentazione curativa dei pellagrosi poveri, non che io
non creda
di qualche vantaggio la buona ed abbondante alimentazione in questo caso
come lo
è in tutte le intossicazioni; ma quando si tratta di farlo in grande
scala, trova impedimento
nella difficoltà dell'esecuzione, mentre invece la cura
farmacologica affatto dimenticata,
arsenio, cocculo etc. raggiunge l'effetto col minimo sforzo" (La
nuova legge sulla pellagra
etc. in Archivio di Psic. p. 450).
Se infatti l'istituzione delle locande sanitarie poteva essere in sé
poco costosa
ed era solo un tentativo filantropico e generoso di alcuni medici ed
amministratori,
proporla legalmente come rimedio, sarebbe stata una grave ammissione del
fatto più
generale di una condizione contadina che non certo una singola legge poteva
sanare e di
fronte alla quale era meglio, per il governo, affrontare piuttosto le ire
di qualche
proprietario criminale ed arretrato.
Quindi non condividiamo affatto la suggestiva e populistica immagine che,
attraverso
le parole dell'anarchico Berneri, Giacanelli ci propone nelle ultime pagine
dell'introduzione,
cioè di un Lombroso che va "verso i poveri contadini
ignoranti" teso in un'opera di redenzione sociale49. Giacanelli, nella
seconda parte del suo saggio, mette
bene in luce i limiti del discorso lombrosiano (ad es. l'ipostasi del fatto
e della
situazione, senza tener conto di qualsiasi specificità e differenza
- l'ipostasi
del fatto grafico come nei Palinsesti p.
17). I numerosi esempi di tale procedimento vengono riproposti nella
documentazione
fotografica de La scienza infelice (p.
153 e sgg.).
Non sempre però questi limiti sono visti chiaramente nella loro
valenza ideologica.
Il Giacanelli non manca di rapportare il discorso di Lombroso al
pregiudizio dell'epoca,
spesso l'unica fonte per ricostruire il "tipo" delinquente
attraverso la ripetizione di stereotipi presenti in certi strati della
società.
Di "scientifico" c'è solo il procedimento matematico
(curve di frequenza e percentuali)
ma le categorie adoperate per l'analisi sono altrettante pennellate di un
ritratto
morale che ispira sdegno e orrore, obiettivazione del vissuto quotidiano
del "male" (p. 20). Le pagine più felici del saggio ci
sembrano perciò le più critiche, come
quelle in cui l'autore, sulla scia di Gramsci, coglie il legame tra certa
letteratura
d'appendice, feuilletons
e l'interesse della sociologia lombrosiana per la criminalità
("un postumo del basso
romanticismo del '48"). Questa parte del discorso (completamente
accettabile) sostanzialmente
mette in crisi l'immagine progressista abbozzata nella prima parte del
saggio e ripresa nella conclusione. La presunta scienza aperta e impegnata
sul sociale,
non ancora chiusa nelle accademie al servizio silenzioso ed efficiente
dello stato
dato o il naturalismo critico di ogni residuo spiritualistico, non sono
sufficienti
a garantire, a nostro parere, neppure uno spazio di serio riformismo al
discorso lombrosiano.
La ragione nuova borghese, in realtà, cosa che il Giacanelli non
sembra avvertire
a sufficienza, ha in sé forti elementi repressivi di cui Lombroso
è espressione (significative
le polemiche che la sua opera suscitò anche all'interno del
positivismo). Il passaggio all'istituzionalizzazione della psichiatria
sarà naturale conseguenza di premesse
e non dovuto ad una rilettura "tecnica" (chiusa e tutta
strumentale per il potere
dato) attraverso una forzatura e stravolgimento dell'ideologia
materialistica e in
fondo, per Giacanelli umanitariamente progressiva del criminologo (p. 29 e
sgg.)
Si è detto che il merito dei positivisti ed anche dei lombrosiani
è l'attenzione concreta
a problemi reali, lontana dall'evasione e dall'astrattezza letteraria
propria dell'intellettuale
italiano. Questo è vero: bisogna però notare che in quella
crisi di valori e di sicurezze che caratterizza gli ultimi decenni del
secolo, un'opera di nascondimento
apertamente apologetica era di per sé impossibile.
Il sentimento di una catastrofe sociale imminente si realizzava per altri
in angosce
cosmiche oppure in proiezioni mitiche e rigeneratrici, che preparavano il
terreno
ad un attivismo irrazionalistico e reazionario. Il medico si trova di
fronte alla
malattia sociale che deborda ogni limite e possibilità di controllo
(i frequenti casi di
"misdeismo" per il disagio nell'esercito, le ingenti masse di
contadini pellagrosi,
la sequela dolente dei bambini degli ospizi e degli orfanatrofi già
irrecuperabili
soggetti nati a delinquere, intere popolazioni in miseria decretate come
chiuse in un atavico
immobilismo etc.).
Nonostante questo, la forza del nascondimento impietrisce ed immobilizza
nel catalogare
e distinguere. Nella stessa formulazione del male c'è già
pronta la copertura ideologica:
il "fatto" ritagliato veniva offerto come probante di per
sé. In realtà, nella miseria della teoria, ciò che
parlava era la violenza oggettiva del potere.
Quando queste pagine erano già scritte è stata pubblicata su
"La questione criminale"
(I, 1976, pp. 194-205) la rassegna "Lavori recenti su Lombroso '
di Franco Silvani.
Appare un segno dei tempi la completa ed entusiastica accettazione delle
tesi del
Bulferetti (e/o di Gina Lombroso) cui è dedicata la maggior parte
delle pagine, volta
a reprimere le voci critiche antilombrosiane e più impegnate in
senso antiistituzionale. Sembra quasi che ogni posizione che colga la
funzionalità apologetica della risposta
lombrosiana alle contraddizioni sociali (del resto in buona compagnia:
basti pensare
ai giudizi definitivamente critici di Labriola, di Gramsci, del democratico
Colajanni e, fuori d'Italia, di Lafargue e di Kautsky) sia di
necessità una sopraffazione ideologica
di chi prenderebbe il criminologo come capro espiatorio per il proprio
furore antiistituzionale
(in particolare la polemica è diretta contro l'introduzione di A.
Pirella a L'uomo di genio,
che, pur schematicamente, coglie a nostro avviso, il senso politico della
proposta
lombrosiana. La povertà degli elementi che il Silvani porta a
convalida del suo discorso
non gli dovrebbe permettere di gratificare di necessaria
superficialità e sommarietà le posizioni antilombrosiane. La
giusta esigenza di storicizzare la figura del criminologo
si traduce poi, accentuando e irrigidendo certe tesi di Bulferetti, in un
inserimento
di Lombroso non tanto nel clima europeo post '70, quanto nelle polemiche e
nella realtà culturale della metà ottocento. Infatti quasi
che storicizzare significhi
soprattutto privilegiare le origini, viene colta tutta la sostanza della
teoria nelle
prime manifestazioni del pensiero giovanile (di qui il presunto,
determinante vichismo dato come costante e come portatore di buona
consapevolezza storica). Questo errore
di fondo condiziona negativamente l'interpretazione. Si arriva a parlare,
sulla scia
di Bulferetti, di una pretesa neutralità teorica del darwinismo
sociale, a risuscitare il fantasma di De Maistre, alla fine del secolo, per
mostrare quanto progressivo
fosse il materialismo lombrosiano completamente assimilato a quello dei
"socialisti"
del XVIII secolo . Si riallacciano le posizioni di Lombroso alla fiducia
aperta e
ottimistica nelle possibilità della scienza di un Saint Simon e di
un Cattaneo, senza cogliere
affatto l'incrinatura e l'incupirsi pessimistico del positivismo negli
ultimi decenni
del secolo in cui sarà presente non solo Schopenhauer ma, a volte,
perfino l'eco
di temi ed accenti che erano stati di un De Maistre (la condanna e
predestinazione
biologica si sostituiscono a quella divina).
Altre risposte ai' temi sollevati dal Silvani le crediamo implicite nel
testo sia
pure nei limiti di una sintesi. La concretezza storica del discorso,
anziché mettere
in crisi, conferma il significato sostanzialmente repressivo della
posizione di Lombroso
e della sua scuola. É proprio su questo terreno che avverrà
il riconoscimento di Rocco
a Ferri e di padre Gemelli alla scuola positiva e di qui, evidentemente,
anche la
posizione del vecchio Prezzolini ricordata dal Silvani (p. 195). Del resto
quest'ultimo liquida in poche frettolose righe un'opera intelligente e
ricca di suggestioni come
La scienza infelice
riducendola ad un testo di sbrigativa critica senza leggere, per altro,
quanto in
realtà l'introduzione di Giacanelli, pur articolata e piena di
spunti, conceda a
Lombroso.