Dialoghi con Giorgio Antonucci e visita ai reparti aperti di
Imola
di Dacia Maraini,
La Stampa,
26.7., 29 e 30.12.'78
LA CONVERSAZIONE
"Gli istituti psichiatrici chiusi sono dei luoghi di tortura, delle
sepolture...".
Giorgio Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato,
autoritario,
privo di abbandoni che siamo abituati a conoscere. La sua faccia triste
esprime una
dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una
timida assorta
attenzione.
"Ma la nuova legge, la riforma ha cambiato qualcosa?", gli chiedo.
"Certo, ha cambiato in meglio... Ma i medici sono sempre gli stessi di
prima e hanno
un'idea punitiva e inquisitiva della psichiatria".
"Quindi è un po' come per l'aborto: fatta la legge non si
riesce ad applicarla per
l'ostruzionismo di chi tiene il potere negli ospedali".
"E così infatti... Nel mio caso quei sepolti vivi che dopo
cinque anni di lavoro durissimo
avevo riportato alla vita, rischiano di tornare in stato di prigionia".
"Puoi raccontare cos'è successo?".
"L'ospedale in cui lavoro, l'Istituto psichiatrico di Imola, sta
cambiando struttura
in seguito alla riforma. E il lavoro che abbiamo fatto coi degenti rischia
di saltare
per aria per l'ostilità dei nuovi dirigenti".
"Ma prima chi ti appoggiava?".
"Io sono stato chiamato a Imola da Cotti (direttore dell'Istituto) che
voleva cambiare
le strutture tradizionali. Ma presto ci trovammo tutti contro, medici e
personale".
"Cosa facevi di così scandaloso?".
"Per prima cosa chiesi di lavorare nel reparto dei più
pericolosi, i cosiddetti `irrecuperabili'
".
"Irrecuperabili cioè non guaribili, è questo che vuol
dire?"
"Per i medici tradizionali queste persone hanno un difetto nel
cervello quello che
viene chiamato malattia mentale, un difetto che non gli permette di avere
una vita
sociale accettabile. Secondo la legge, che ora è stata abolita,
erano segregati perché
pericolosi a se stessi e agli altri, propensi a creare scandalo
pubblico".
"Malattia mentale quindi qualcosa di fisiologico, di interno ?".
"Sì, più o meno un guasto al cervello, derivante da una
debolezza congenita. Secondo
me invece i degenti non hanno assolutamente niente di diverso dagli altri,
solo che
si sono trovati in situazioni sociali difficili, di svantaggio nei riguardi
del potere".
"Quindi per te la cosiddetta malattia mentale è esclusivamente
un prodotto sociale".
"E nel '68 che si è cominciato a discutere pubblicamente
sull'esistenza o meno della
malattia mentale. Io ho lavorato con Basaglia nel '69. Lui la malattia
mentale la
vede come una cosa dinamica che investe le persone meno resistenti. Per me
la psichiatria è un'ideologia che nasconde i problemi reali delle
persone ricoverate. Freud stesso
diceva che occupandosi dei conflitti nevrotici aveva smesso di fare il
medico e si
era messo a fare il biografo".
"E cosa pensi di quei conflitti arcaici che si pensa superino i
problemi sociali e
mettano radici nel profondo dell'inconscio ?".
"Non si possono applicare le categorie di Freud ai braccianti
calabresi perché Freud
analizza i borghesi dell'Ottocento".
"Quindi non credi all'universalità del complesso di Edipo, per
esempio?".
"No, decisamente... Il complesso di Edipo, nasce in un certo tipo di
famiglia, in
una data situazione, in una data cultura".
"E quali sono i tuoi metodi di lavoro a cui i medici sono così ostili?".
"Ti faccio un esempio, quando arrivai a Reggio Emilia incontrai una
donna, Santina,
di 40 anni, che lavorava nelle montagne reggiane, era moglie di un
muratore, aveva
tre figli, era stata ricoverata molte volte. Per i medici aveva qualcosa di
guasto
da curare. Le facevano gli elettroshock. Io andai a parlare con la
famiglia, con lei, col
marito. Venne fuori una storia drammatica; Santina era figlia di contadini,
giovanissima
aveva fatto la domestica a Genova subendo una serie di esperienze
traumatiche. Poi
era tornata al paese, si era sposata. Ma ogni volta che aspettava un figlio
stava
male e il marito l'accompagnava all'ospedale. Qui la riempivano di
psicofarmaci e
le applicavano gli elettrodi. Per la famiglia quel suo uscire e entrare
dall'ospedale
era normale".
"E guarita poi Santina?".
"Sì... Intanto ho eliminato gli psicofarmaci e l'elettroshock,
poi ho parlato col
marito, col sindaco del paese, coi vicini. Col marito ho avuto una
discussione dura,
una lite. Ma dopo le cose sono cambiate. Santina non è più
stata ricoverata e quando
è rimasta di nuovo incinta non è stata più male".
"Quindi analisi della situazione reale in cui vive la persona che sta
male più che
del suo inconscio".
"L'atteggiamento del medico è importantissimo. Non si
può avere rapporti di fiducia
con persone che non consideri uguali a te. I medici trattano i ricoverati
come degli
inferiori e loro rispondono con la violenza o l'apatia".
"Mi dicevi che hai lavorato soprattutto in reparti di donne...".
"Le donne spesso sono dentro per ragioni di costume, per avere
trasgredito la morale
comune. A Imola ho liberato una donna che era stata internata perché
ragazza madre.
Da 26 anni stava legata al letto. Le ho chiesto perché l'avevano
chiusa. E lei mi
ha detto: "Perché sono schizofrenica". Ho insistito
chiedendole perché secondo lei era
stata chiusa. E alla fine mi ha detto: "Perché mi piacciono gli
uomini". Testuale.
Dopo un anno di lavoro l'ho dimessa. Il problema spesso è di trovare
qualcuno che
le accolga. Lei per fortuna aveva un fratello che l'amava e l'ha accolta in
casa.
"Da un libro che è uscito nelle Edizioni delle donne infatti
risulta che la maggior
parte delle donne vengono internate per trasgressioni ai doveri sessuali o
casalinghi,
cioè per rifiuto del ruolo tradizionale".
"Quando io entrai nel reparto delle irrecuperabili i medici mi
ridevano dietro. C'erano
donne legate da dieci, venti anni, che non erano più capaci di
parlare, di camminare,
di mangiare. Io le slegai. Tutti si aspettavano la catastrofe. Fra l'altro
c'era
stato il precedente di un medico che aveva dato l'ordine di slegarle e poi
se ne era
andato. Le donne, abituate alla costrizione, con tutta l'angoscia che
avevano dentro,
appena slegate hanno cominciato a picchiarsi. E subito naturalmente le
avevano rilegate".
"E tu come hai fatto?".
"Io le ho slegate, ma non tutte insieme, due per volta e poi stando
presente, parlando
con loro, con le infermiere. Poi feci aprire le porte, levare le
inferriate. Il reparto
era
chiuso come una fortezza. Infine fra lo scandalo dell'istituto, le feci
uscire nel
parco. Il lavoro più duro era, giorno per giorno, ridare loro la
fiducia in sé, la
capacità di essere indipendenti".
"E ci sei riuscito?".
"Dopo tanti anni di letto, legate mani e piedi da cinture di pelle, la
camicia di
forza e qualche volta, come ho visto addosso a una contadina che aveva
l'abitudine
di sputare una specie di museruola di plastica che le chiudeva la bocca, si
facevano
tutto addosso, non volevano vestirsi, non camminavano. Non riuscivano
neanche a mangiare--molte
avevano i denti davanti spezzati sia per gli elettroshock che per l'uso dello scalpello
quando si rifiutavano di aprire la bocca--avevano i muscoli atrofizzati.
Era come fare rivivere dei morti".
"E il personale come reagiva?".
"Le infermiere prima avevano paura, paura delle malate -- abituate ad
essere legate
come cani quando venivano slegate in effetti mordevano -- paura dei medici
che le
consideravano delle serve e anche le usavano come terreno di caccia. Da
principio
quindi hanno fatto difficoltà ma poi credo che sia stato un sollievo
anche per loro".
"E quanti reparti hai aperto con questo sistema?".
"Dopo il 14, il più difficile, ho aperto il l0 e poi il 17
maschile, anche quello
considerato irrecuperabile. Nel frattempo è cambiato qualcosa, altri
reparti provavano
ad aprirsi, anche se a metà".
"E ora?".
"Ora con la riforma, Cotti non è più direttore
dell'Istituto psichiatrico, le sezioni
dipendono dal primario. E questo primario non crede assolutamente ai metodi
che uso
io. Lui è per i vecchi sistemi dell'elettroshock, della camicia di
forza, degli psicofarmaci e i centoquarantasette degenti che ora stanno
slegati rischiano di tornare
in cattività".
"Cosa si può fare per evitarlo?".
"Parlarne, fare sapere alla gente come stanno le cose. Quando io ho
detto alla madre
di quella donna che stava legata da 20 anni che sua figlia non avrebbe mai
dovuto
essere ricoverata, si è messa a piangere: "A me nessuno mi
aveva mai detto una cosa
simile". La gente non sa si affida ai medici e non immagina che la
maggior parte dei casi
sono dovuti a conflitti facilmente risolvibili. I medici, anziché
guarirli, li puniscono,
li legano, li rendono inoffensivi...".
"Fanno i poliziotti insomma anziché i guaritori".
"Legare una donna per venti anni a un letto vuol dire ucciderla. . .
".
"Quindi queste donne dimostrano una grande forza non facendosi
distruggere del tutto...".
"Infatti... Se le avessi viste quando sono uscite nel parco la prima
volta... Rovinate
Come sono, coi denti rotti, i muscoli atrofizzati, la lingua
inarticolata... Erano
felici ed esprimevano questa felicità con grande vitalità.
Tornare a legarle sarebbe
un crimine".
Credo che non ci sia bisogno di commenti a questo dialogo con Antonucci. Io
stessa
l'anno scorso qui a Roma ho seguito un esperimento di un gruppo di ragazzi
che hanno
"liberato" degli handicappati. Costoro prima (chiusi e rimpinzati
di pillole) non
parlavano, non mangiavano da soli, e non potevano uscire. Dopo un anno di
lavoro in comune
giravano il quartiere da soli, andavano a lavorare, discutevano,
partecipavano, decidevano
come gestire i soldi, ecc... E non si tratta di beneficenza ma di una
migliore convivenza di tutti. Rinchiudere e legare chi appare diverso
è come chiudere e legare
una parte di noi, forse la migliore, certamente la più carica di
originalità e di
sensibilità.
LA FESTA
E un sabato freddo. La neve spalata ai bordi della strada si scioglie
lentamente colando
acqua nera. A Imola ci sono tre gradi sotto zero. Le gomme della macchina
scivolano
sopra uno strato di brina ghiacciata. Chiedo dell'ospedale della Scaletta.
Mi indicano un alto muro dietro al quale si alzano dei blocchi gialli.
Chiedo del padiglione
10. E laggiù, mi dicono. Imbocco un vialetto corto e largo
fiancheggiato da grossi
ippocastani e posteggio accanto ad un autobus celeste.
Una volta aperta la porta del reparto mi trovo in una sala lunga e stretta
affollata
di gente. In fondo sotto un affresco di mari ondosi su cui navigano barche
dalle
vele rosse, ci sono i ragazzi dell'Aquila venuti qui per suonare. Fra
l'orchestra
e la porta tante sedie con tanti ricoverati donne e uomini. La festa
l'hanno organizzata loro,
con l'aiuto del dottor Antonucci e degli infermieri.
Una donna vestita di giallo e di lilla mi abbraccia e mi bacia sulle due
guance. Un'altra
donna magra, senza denti, i capelli scarmigliati, gli occhi splendenti, un
sorriso
mesto, si siede accanto a me e mi spiega, con gesti e parole scombinate ma
piene
di entusiasmo, cosa ha sognato la notte scorsa. La musica di Mozart, con la
sua armonia
esplosiva dilata gli spazi, entra in queste facce contratte segnate dalle
torture
trasformando la bruttezza in bellezza, si fa liquido delicato piacere.
I ragazzi dell'orchestra con le loro barbe, i loro blue jeans, i loro
capelli lunghi
suonano, impetuosamente brandendo i corni, i violoncelli gli oboi. Alcuni
dei degenti
si mettono a ballare. Altri ascoltano a bocca aperta, facendosi cullare
dalla meraviglia di quelle note. Una donna mi invita a ballare. E bassa,
robusta, ha i capelli
neri ispidi che le circondano la faccia dai tratti marcati. Le mancano i
denti davanti,
come a tante altre; ha gli occhi brillanti, un'espressione di testarda
ilarità che
la rendono infantile nonostante i suoi anni.
Balliamo come due orsi, in un abbraccio goffo e pesante. Più tardi
saprò che questa
donna è stata legata per anni, e che quando il reparto era chiuso
non riusciva a
parlare, a mangiare da sola, sputava addosso a chiunque le si avvicinasse,
rifiutava
i vestiti e le scarpe. Ora balla, parla, mangia, cammina come una persona
qualsiasi.
Nessuno aveva pensato in tanti anni che proprio nel suo sputare stava il
segno della
sua integrità: anziché diventare un vegetale come volevano i
medici, si accaniva
a protestare, nel solo modo che le era ormai possibile, contro la
prigionia. Sottoposta
agli elettroshock (ne ha fatti più di 50), piena di psicofarmaci,
legata mani e piedi
col bavaglio sulla bocca, era oggettivamente una "idiota". Ora
è tornata ad essere
una persona intelligente.
Passa una infermiera con un vassoio pieno di paste. Gli occhi dei
ricoverati si fissano
avidi su quei pasticcini. Come per tutti i reclusi il cibo è
diventato sacro: nel
cibo si cerca affetto. soddisfazione sessuale, magia. Il cibo, soprattutto
i dolci
ricordano al recluso che il suo corpo esiste anche per provare dei piaceri,
che la sua
pancia non è solo un sacco in cui si cacciano le minestre e le
medicine per mantenersi
in vita, ma è anche un posto dove lasciare scivolare qualcosa di
assolutamente inutile, forse anche dannoso, ma quanto capriccioso, tenero e
amabile!
Un ricoverato che stava per uscire torna indietro, posa religiosamente la
giacca su
una sedia e aspetta con pazienza che il vassoio arrivi da lui. Una donna si
asciuga
la bocca con cura meticolosa, posa il bicchiere di carta pieno di aranciata
sotto
la sedia, si sporge in avanti, pronta a ricevere la sua parte.
Piero Colacicchi, uno degli artisti che collaborano col dottor Antonucci,
mi chiede
se voglio fare un giro per gli altri padiglioni. Dico di sì. Usciamo
nel freddo di
un crepuscolo celeste e argento. Camminiamo in mezzo agli ippocastani, ai
tigli,
alle acacie profumate fra i fabbricati tutti uguali dell'ex ospedale
psichiatrico. Molte finestre
sono illuminate. Dietro le finestre si intravedono delle facce bianche,
attonite.
Bussiamo a una porta. Ci viene ad aprire una infermiera con un grosso mazzo
di chiavi
alla vita. Nella sala ci sono una quarantina di donne chiuse dentro
grembiuli grigi
tutti uguali. Ci assale un tanfo di disinfettante, misto a cibo ordinario e
sudore
che dà il capogiro. Tre infermiere robuste, pratiche, piene di buon
senso e di allegria
ci mostrano il dormitorio con i letti perfettamente puliti, allineati uno
accanto
all'altro, il refettorio con le tavole coperte da tovaglie di plastica a
quadri.
Qui dormono, qui mangiano, qui si riposano. Tre grandi sale in cui
convivono quarantacinque
donne di tutte le età. I gabinetti sono 4, i bagni due, i lavandini
6. La porta di
ingresso è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate.
La differenza coi reparti aperti si sente subito. Lì i ricoverati si
sentono padroni
di sé, qui sono proprietà di coloro che li controllano, li
puniscono. Lì sono vestiti
di tutti i colori con roba che hanno scelto loro; qui portano divise che
mortificano
i loro corpi e li rendono tutti uguali. Lì sono ascoltati come
persone che hanno avuto
delle difficoltà con l'ambiente in cui vivevano ma non per questo
hanno perso la
capacità di capire e sentire: qui sono trattati con la bonomia
paternalistica di
chi decide per loro, agisce per loro, pensa per loro.
Le infermiere non possono non fare ciò che i medici dicono loro di
fare. La loro personalità
viene fuori clandestinamente nei rapporti a tu per tu con le degenti, e
sono rapporti
fatti di crudeltà e di dolcezza come tutti i rapporti non liberi.
Esse si fanno volentieri mamme a volte tenerissime e cordiali, a volte
violente e sadiche. Non
possono, perché non gli è permesso e nessuno gliel'ha
insegnato, avere un rapporto
da pari a pari.
In un altro padiglione chiuso di soli uomini noto che il movimento avviene
tutto per
linee orizzontali. Mentre le donne girano in cerchio gli uomini vanno su e
giù tracciando
delle parallele sul pavimento logoro. Un ragazzo mi mostra una scatola di
cartone in cui tiene chiuso il suo segreto. Vuole che tocchi la scatola ma
non devo aprirla.
Ha le orecchie come due riccioli di carne. E sordo e muto. E guarda con due
occhi
dolorosi e lontani. Un altro si presenta compito, saluta, si ravvia i
capelli, dice
alcune frasi cerimoniose, risaluta, si allontana. Hanno qualcosa di
spettrale, di spento
che, ora capisco, è dovuto soprattutto agli psicofarmaci.
Dal padiglione maschile chiuso passiamo a quello aperto. L'atmosfera
è subito diversa:
confusione, vocio, disordine, colori. Ci viene incontro un uomo mezzo nudo
che si
muove a quattro zampe. Il peso del corpo gravita tutto sulle due grosse
mani callose.
Le spalle sono da lottatore; le gambe, atrofizzate, molli e rattrappite, se
ne stanno
ciondoloni senza forza. Quest'uomo è stato chiuso e legato da quando
aveva otto anni.
Oggi ne ha quaranta e solo da poco è libero di muoversi come vuole.
Si guarda intorno torvo e risoluto; il candore gli illumina le guance.
Nello sguardo c'è il ricordo
truce di chi è stato costretto a farsi scimmia per sopravvivere.
Torniamo alla festa nel padiglione aperto delle donne. Ora molti dei
ricoverati chiacchierano
con quelli dell'orchestra facendo ressa attorno agli strumenti, toccandoli
provandoli.
La maggior parte delle seggiole solo vuote. Il pavimento è cosparso
di bicchieri di carta. C'è un'atmosfera di eccitazione languida di
fine festa, un calore
diffuso che appanna i vetri e lustra le guance dei ricoverati.
Prima di andare via, ormai è l'ora di cena, visitiamo il dormitorio
dove alcune donne
sono rimaste a letto perché malate. Ci accolgono con battute
scherzose, allegramente,
salvo una che soffre di acuti dolori alla pancia e mugola piano
rannicchiata nel
suo cantuccio. Le pareti sono coperte di stampe colorate, disegni, fiori,
stelle. Una
ragazza in vestaglia va e viene portando dei dolci.
Mentre i ragazzi del Gruppo da camera dell'Aquila rinfoderano i loro
strumenti e i
pittori che collaborano alle iniziative culturali (fra cui Luca Bramanti
che ha dipinto
molti degli affreschi qui) si preparano a tornare a casa, faccio qualche
domanda
ad Antonucci. Per prima cosa gli chiedo perché, visto il buon
risultato che lui ha ottenuto,
non si fa la stessa cosa negli altri padiglioni.
"Prima di tutto perché è molto faticoso - risponde
Antonucci con la sua voce quieta,
dolce - mi ci sono voluti cinque anni di lavoro durissimo per ridare
fiducia a queste
donne; cinque anni di conversazioni, di presenza anche notturna, di
rapporto a tu
per tu. Però non si tratta di una tecnica, ma di un diverso modo di concepire i rapporti
umani " .
"In che consiste questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti
malati psichici?"
"Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria
va completamente
eliminata. I medici dovrebbero essere presenti solo per curare le malattie
del corpo.
Storicamente da noi la psichiatria è nata nel momento in cui la
società si organizzava in modo sempre più rigido, e aveva
bisogno di grandi spostamenti di mano d'opera.
Durante queste deportazioni fatte in condizioni difficili, ostili molte
persone rimanevano
disturbate, confuse, non producevano più bene e quindi c'era
l'esigenza di metterle da parte. Rosa Luxemburg dice: "Con
l'accumulazione del capitale e lo spostamento
delle persone si allargano i ghetti del proletariato". Nel '600 in
Francia quando
si forma la monarchia assoluta (lo Stato), i manicomi venivano chiamati
"luoghi di
ospizio per persone povere che disturbano la comunità". La
psichiatria è venuta dopo come
copertura ideologica. Nel trattato di psichiatria di Bleuler che è
l'inventore del
termine schizofrenia è detto che schizofrenici sono coloro che
soffrono di depressioni,
che si immobilizzano o girano intorno ossessivamente per il cortile. Ma che
altro
potevano fare così reclusi? Infine Bleuler conclude senza volere,
comicamente: "Sono
così strani che alle volte assomigliano a noi".
''Insomma tu dici che la malattia mentale non esiste ma esistono dei
conflitti sociali
di fronte a cui alcune persone più fragili o più oppresse
soccombono."
"Sono i medici spesso che fanno il malato. Ti faccio un esempio che mi
è capitato
recentemente a Firenze. Un bambino mancino viene sgridato dalla maestra
perché "diverso"
dagli altri. Il maestro di musica fa notare che l'allievo non batte bene il
tempo.
Il bambino comincia a sentirsi inferiore agli altri si rifiuta di andare a
scuola. La
madre ne parla con la maestra che le dice: "Suo figlio è
anormale, lo faccia vedere
da un medico" e la manda al Centro di igiene mentale. Lì uno
psichiatra le dice che
il figlio ha dei disturbi di "lateralità", che va curato.
Per caso a questo punto vengono
da me. Dico alla madre che il bambino è sanissimo e ha il diritto di
scrivere con
la mano che vuole. Così lei va dalla maestra e finalmente difende i
diritti del bambino".
"Era un bambino ricco o povero?
"Il fatto è proprio questo: il bambino era di una famiglia che
non conta e gli insegnanti
avevano un atteggiamento di discriminazione sociale. Ti faccio un altro
esempio:
una donna sposata con un operaio, ha due bambini, fa la casalinga, non si
intende
bene col marito, comincia a soffrire di insonnia, di angosce, di paure. Sta
male, dimagrisce,
è nervosa. Il medico le consiglia di andare al Centro di igiene
mentale. Lei si rifiuta
di prendere gli psicofarmaci che le propongono; e allora la mandano
all'ospedale civile dove gli psicofarmaci è costretta a prenderli
per forza. Il trattamento
sanitario è una violenza non serve a niente".
"Alla Scaletta si fanno ancora gli elettroshock?".
"Non più. Da quando Cotti è entrato come direttore sono
stati eliminati l'elettroshock
e altre forme più vistose di tortura" .
"E gli psicofarmaci e il letto di contenzione?".
"Gli psicofarmaci sono ancora usati largamente. In quanto al letto di
contenzione,
se il ricoverato non disturba viene lasciato a se stesso ma se disturba, lo
si lega.
Nei miei reparti (sono tre) ho abolito da tempo sia gli psicofarmaci che la
contenzione. Da me se due litigano, li si lascia litigare. Da dieci anni
che lavoro non ho mai
fatto un ricovero obbligato, per me il ricovero obbligato è una
deportazione".
"E la nuova legge in che modo ha cambiato le cose qui dentro?".
"Di fronte alla legge ora si verificano tre situazioni diverse: la
prima riguarda
quelli che già sono dentro le istituzioni psichiatriche, i
lungodegenti; verso costoro
la legge permette l'uso di vecchi metodi repressivi (quasi ovunque ancora
si usano
elettroshock, corsetti, detenzione e psicofarmaci); la seconda riguarda le
persone al
centro di conflitti nel territorio, per le quali la legge ammette l'uso di
psicofarmaci
per renderle innocue (vedi le ragazze che vengono rimpinzate di
tranquillanti perché
non escano la sera o perché non si droghino, o non pratichino il
sesso); la terza riguarda
le persone che non si riescono a controllare con psicofarmaci e per cui la
legge
prevede che vengano mandate all'ospedale civile dove saranno sottoposte al
trattamento sanitario obbligatorio. In tutti i casi la linea del metodo
psichiatrico è di tenere
le persone sottomesse sotto controllo".
"Qual è secondo te l'alternativa?".
"L'alternativa sta nell'identificare i diritti individuali delle
persone nella situazione
sociale e storica in cui vivono e nell'ottenere il consenso e la
partecipazione attiva
della comunità attraverso i comitati di quartiere, i consigli di
fabbrica, le scuole".
"Insomma sei d'accordo con Pirella quando dice che 'bisogna adottare
iniziative precise
per la formazione professionale dei ricoverati, occorre garantire loro il
diritto
di avere una casa' ".?
"Certo sono d'accordo. Però mi sembra che il discorso di
Pirella non è del tutto chiaro.
Mi sembra di capire che lui comunque vuole mantenere un certo tipo di
assistenza
psichiatrica. Mentre io sono per abolirla del tutto".