Psichiatria romantica
e storie vere
Altri psichiatri, più romantici, come il famoso scrittore
italiano Mario Tobino,
si dilettano lavorando o avendo lavorato in manicomio, di problemi di
estetica e
di misticismo, e scrivono opere o ispirano film di carattere sentimentale e
umanitario.
Ma al manicomio però ci sono affezionati24.
Scriveva nel 1978, parlando del mio lavoro al reparto 14, lo psicologo
forlivese
Gianni Tadolini a Mario Tobino in una lettera aperta:
Caro Tobino,
il tuo articolo "Vedo il ghigno della follia" apparso sul
"Resto del Carlino" di domenica
7 maggio, mi ha indotto a scrivere questa lettera aperta, perché
ritengo doveroso
fornire al lettore alcune valutazioni critiche e qualche spunto di
riflessione.
Tu affronti il problema della follia nel tuo stile consueto. Per te la
follia è
sempre qualche cosa di misterioso ed arcano che ad un dato momento si
scatena: è,
tutto sommato, una malattia. Da queste premesse, logicamente, passi a
difendere i
manicomi, gli psicofarmaci, il sistema, e così ti accusano di essere
strumento del potere dominante.
Caro Tobino, credo che non basti andare a "prendere il
caffè, a passeggiare o giocare
a carte" con i ricoverati per sentirsi giustificati; per essere contro
quel potere
che, direttamente o indirettamente, è responsabile
dell'emarginazione di tanti individui. Però vedo in te un sentimento
di grande umanità, che apprezzo moltissimo, e
non voglio entrare nei soliti (anche se sacrosanti) discorsi
politico-sociali che
negli ultimi quindici anni hanno sorretto i temi antipsichiatrici. Desidero
solamente
raccontarti la mia piccola esperienza che comunque mi ha condotto a
conclusioni diverse
dalle tue. Ho lavorato nell'istituzione psichiatrica nell'era della
psicofarmacologia.
Non ho conosciuto i manicomi di una volta (non
"psicofarmacologizzati"), se non dai
racconti dei colleghi più anziani.
Nonostante gli psicofarmaci ho udito "quei gemiti, urla,
imprecazioni, implorazioni"
di cui tu parli, ma che spesso, troppo spesso non mi sono sembrati il
frutto del
delirio ma la risposta, impotente e disperata, ad una situazione umana ed
ambientale
inaccettabile.
E veniamo pure al "delirio" a questo linguaggio che tu senti
tremendo e misterioso,
ma che si fa così chiaro e logico quando riesci a cogliere la
struttura interna che
lo muove; struttura fatta di emarginazione e sfruttamento sociale e
culturale, di
drammi familiari ed affettivi. Te la prendi con Basaglia quando dice che
"i manicomi
li hanno voluti i padroni".
Come mai sul frontespizio del 90% delle cartelle cliniche che mi sono
passate davanti
si legge:
"Condizione sociale: povero Cultura: analfabeta Professione:
bracciante, disoccupato,
casalinga?"
Se impariamo a cogliere il messaggio del delirio ed i suoi simboli
ritroveremo
una storia drammatica, tutt'altro che misteriosa ed oscura.
E gli psicofarmaci? Tu scrivi: "... poi nel 1952 arrivarono gli
psicofarmaci che
riescono a velare, a intorpidire, a rendere apparentemente molli molti
segni della
pazzia. Ecco allora per me il vero interrogativo: se non si scoprivano gli
psicofarmaci
si sarebbero potuti liberalizzare i manicomi?". Permettimi di
rispondere in maniera
paradossale (ma non troppo): i manicomi hanno potuto seguire un processo di
reale
liberalizzazione solo dove l'invasione farmacologica è stata di
molto ridimensionata.
E qui mi vengono alla mente decine di persone inebetite dagli psicofarmaci;
ridotte a livello
quasi vegetativo da dosi massacranti di cloropromazina e di aloperidolo.
Voglio raccontarti
una storia; la storia di un reparto dove "vivono" queste persone.
Storia del Reparto 14
dell'Istituto psichiatrico
"Osservanza" di Imola.
Era il "reparto agitate", considerato il più pericoloso
dell'ospedale.
Le pazienti stavano quasi sempre legate. Unico diversivo della giornata:
I'elettroshock.
L'ambiente era tetro, con robuste sbarre alle finestre e tutto circondato
da mura.
Nessuna poteva uscire, ma gli psicofarmaci entravano a valanghe. Quando una
infermiera veniva inviata al 14 le si raccomandava di fare attenzione: era
un ambiente pericoloso,
vi erano persone violente. Era insomma un reparto di manicomio, credo non
molto diverso
da quelli del tuo ospedale di Lucca qualche anno fa.
Poi le cose cambiarono; venne un direttore nuovo, ed il padiglione fu
affidato
ad uno di quei medici con cui non sei d'accordo: un
"antipsichiatra": il dottor Giorgio
Antonucci. Il lavoro fu difficilissimo. "Il dottore è un po'
matto"--si diceva. I
mezzi di contenzione uscirono dal reparto assieme agli psicofarmaci. Il
medico stava vicino
alle pazienti molte, molte ore al giorno; parlava con esse, penetrava nei
deliri
e nelle angosce; comunicava, essere umano vicino ad esseri umani. Quei
volti muti
o urlanti, segnati dalla disperazione, iniziarono a raccontare una storia:
la storia della
loro emarginazione, della loro condanna; la storia di una sofferenza
enorme. Il prezzo
e la fatica di quel lavoro è conosciuta solo dal medico che l'ha
compiuto. Comunque
oggi il 14 è un reparto aperto, nessun mezzo coercitivo è
usato, neppure la "contenzione
psicofarmacologica" tanto a te cara. Le pazienti, sebbene ormai
distrutte dagli elettroshock
e dai neurolettici, hanno riappreso a comunicare, passeggiano liberamente
nel parco, partecipano alla gestione del reparto.
Teresa, ad esempio, per vent'anni ha vissuto chiusa in un camerino,
legata al letto
mani e piedi, con una mascherina di cuoio sulla bocca, fino ad intorpidirsi
in posizione
fetale. Oggi cammina, esce nel parco, parla si veste, si pettina. Alcune
donne sono state addirittura dimesse e reinserite socialmente. Sembra
paradossale, ma il
14 è oggi il reparto forse più tranquillo dell'ospedale.
Mi dispiace, caro Tobino, forse sei rimasto indietro perché ti
sei fossilizzato
sul sintomo. Sei rimasto ancora prima di Freud: si, perché
già Freud ci insegnava
che il sintomo è solo l'epigono di una storia, e solamente dalla
conoscenza di questa
nasce quel sapere che decifra il delirio e che può spaccare e
distruggere il sintomo stesso"25.