Il conformismo e la diversità
Per quel che riguarda il rapporto tra biologia, genetica e psichiatria,
ritengo utile
ora riprendere un mio progetto per un articolo scritto nel 1984:
I
La mente - scrivono Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli nel "Dizionario
della lingua
italiana" - è il complesso delle possibilità e dei
contenuti intellettuali e specialmente
spirituali dell'individuo.
Brunetto Latini, il maestro di Dante, usa questo termine tra i primi
autori in
lingua italiana, intendendo intelligenza o intelletto (1294). Altri autori
vogliono
significare pensiero. Altri ragione.
La malattia della mente o malattia mentale--che come si è
già visto non si deve
confondere con le malattie del cervello di pertinenza della
neurologia--è dunque prima
di tutto, secondo la teoretica degli psichiatri, un difetto della
personalità, un
dubbio sull'integrità intellettuale e spirituale dei pazienti.
Si parte da un giudizio negativo sul pensiero e sul comportamento della
persona
indiziata, e poi si procede.
Naturalmente l'arbitrarietà di questo tipo di giudizio apre la
possibilità a qualsiasi
uso del concetto, che sembra essere metaforico e molto simile al concetto
di malattia
dell'anima.
Tutti gli uomini, volendo, come si vede anche dal caso Sakharov, possono
essere,
ogni volta che conviene, inclusi o esclusi da questa definizione, che non
ha nulla
di scientifico se non altro per la sua indeterminatezza.
Il noto esponente della camorra Cutolo potrà essere definito
malato di mente o
no quando si vuole, tenendo conto delle convenienze contingenti.
Così l'indeterminazione
del concetto può essere, come si vede, molto utile dal punto di
vista pratico.
Però gli psichiatri non si fermano a quella che poteva sembrare
una metafora, e
procedono decisamente più avanti. Le persone indiziate sono, come
dicevo, sospette
perché ritenute non responsabili di sé, così da dover
essere requisite con l'autorità
e controllate con la costrizione.
Considerando soltanto la situazione italiana si vede che prima del
maggio del '78
c'era il ricovero coatto in manicomio dal '78 in poi c'è il
trattamento sanitario
obbligatorio nei centri ospedalieri di "Diagnosi e Cura".
La maggior parte degli psichiatri afferma che le persone, sottoposte a
questo tipo
di diagnosi, sono, anche se non si è potuto ancora dimostrarlo
difettose fin dalle
origini, per probabili carenze strutturali o biochimiche del patrimonio
genetico35.
Così i pazienti diagnosticati sarebbero biologicamente difettosi dal
concepimento
fino alla morte.
Vediamo così che si è preparata una trappola teorica da
cui le vittime non possono
uscire, indipendentemente dall'essere o non essere rinchiuse in manicomio.
I teorici della biologia e della psichiatria dicono che il difetto
genetico e cerebrale
non è ancora stato trovato, ma è pensabile che lo si trovi
col perfezionamento degli
strumenti scientifici di ricerca.
Ma il problema è un altro: in chi dobbiamo cercarlo questo
difetto? Negli omosessuali,
negli anarchici, nelle prostitute, nei dissidenti, nei disoccupati, negli
studenti
che si drogano?
Oppure negli operai che non sopportano la fabbrica? Nei pensionati che
non ce la
fanno a vivere? Nelle casalinghe infedeli? Nei bambini che non vanno bene a
scuola?
Ricordo che una volta a Firenze mi è capitato di sottrarre
all'attenzione delle
assistenti sociali e degli psichiatri un bambino di otto anni, messo sotto
cura dagli
insegnanti perché mancino.
Rammento che dissi alla madre di riferire ai dottori che anche Leonardo
da Vinci
era mancino e generalmente scriveva procedendo da destra verso sinistra, al
contrario
di tutti gli altri scrittori.
II
É notizia di questi giorni che, in una casa colonica vicino a
Scandicci, un vecchio
contadino in pensione ha ucciso la moglie, ormai quasi completamente
paralizzata
da una emorragia cerebrale, e poi si è suicidato.
Sui quotidiani di oggi (martedì 24 luglio 1984) vengono riportate
le dichiarazioni
di alcuni personaggi della cultura, tra cui il medico gerontologo Professor
Francesco
Antonini, e il sacerdote teologo Padre Gino Ciolini.
Francesco Antonini dice in modo molto chiaro: "Io sono dalla parte
di quest'uomo,
se diventassi paralizzato mi ucciderei anch'io, se potessi" e
aggiunge, commentando
lo stato di disperata solitudine in cui si trova una persona ormai ritenuta
dagli
altri inutile: "Certo puoi pensare che vali per quello che hai fatto
di buono nel passato.
Ma voi credete che gli altri se lo ricordino? E allora che cosa c'è
di meglio che
morire? É un'accusa per tutti, ma è un'accusa giusta.
Perché ormai siamo buoni solo
a dare medicine, e non siamo buoni ad altro".
Il sacerdote teologo Padre Gino Ciolini, sia pure manifestando il suo
dissenso
di natura etica e religiosa sulla decisione di uccidere ed uccidersi,
è comunque
consapevole dei motivi reali della tragedia.
"Non lo giudico - dice - nel senso che comprendo la forza del suo
dolore. Così
come sono d'accordo nel dire che è questa società che spinge,
e non solo spinge,
ma insegna a sopprimere la vita, diventata inutile dal punto di vista
produttivo.
E allora non è più l'uomo che uccide, ma la società
che ha ucciso l'uomo ossessionato dall'idea
di non servire più a nulla e a nessuno.
Ma questa è una cultura nichilista, per la quale uno non vale
più perché non produce
più".
Da parte mia io mi domando però che cosa sarebbe accaduto a
questo uomo se, casualmente,
come è successo ad altri, non fosse riuscito a uccidersi. Come
sappiamo, sarebbe
inevitabilmente caduto nelle mani degli psichiatri, che avrebbero
completato il lavoro di svalutazione della sua esistenza, e, sul piano
generale, avrebbero gettato
la cortina fumogena intorno al vero significato di questa vicenda.
III
Nella storia italiana di questi anni, dopo il successo de
"L'istituzione negata"
uscita nel 1968, e il varo della Legge 180 dieci anni dopo, gli psichiatri
più in
vista, da Trieste fino a Napoli, da Milano fino a Palermo, hanno cominciato
a fare
a gara per distinguersi in bravura in quel progetto che si è soliti
chiamare "superamento
del manicomio".
Altri si sono affrettati a lasciare il manicomio, che per lo più
loro stessi avevano
difeso dalle critiche e contribuito ad alimentare, pensando di qualificarsi
meglio
nelle attività degli ospedali civili e del territorio.
Le cliniche universitarie sono rimaste immutate, come se nulla fosse
accaduto,
e hanno continuato, quasi senza eccezione, nella difesa delle concezioni
psichiatriche
ortodosse e nell'insegnamento dei concetti tradizionali. Ogni tanto
ripropongono
nuove ipotesi biochimiche (arbitrarie) che naturalmente possono essere
applicate a chi si
vuole.
Così dovunque si è riconfermato, sia pure a volte in forme
apparentemente diverse,
il controllo sociale come funzione specifica dello psichiatra per il
mantenimento
dell'ordine di cui hanno bisogno le gerarchie, l'ideologia d'élite,
l'intolleranza
di pensiero, e l'arretratezza dei costumi.
Non bisogna dimenticare, tra l'altro, che la persecuzione dei dissidenti
mediante
gli strumenti della psichiatria è stata un fenomeno italiano, molto
prima che sovietico,
ed era, come tutti sanno, il cavallo di battaglia di Lombroso.
Negli ultimi anni, dopo la parentesi del '68, le distinzioni sociali
hanno riacquistato
credibilità e prestigio e ora quasi più nessuno le discute. D'altra parte il sostanziale
conformismo degli addetti ai lavori in psichiatria, vecchia e nuova,
è indiscutibile, ed è una garanzia per tutti. Gli psichiatri
si sono accorti che possono
funzionare benissimo mantenendo tutti i loro vantaggi culturali o
economici, é possono
continuare a eliminare le persone scomode, anche con le forme giuridiche,
debolmente
riformiste e fortemente ambigue, della nuova legge del '78. Solo i meno
intelligenti,
tra cui gli universitari, vorrebbero reintrodurre forme giuridiche
più antiquate.
Fin tanto che la legge prevede gli interventi autoritari e il
trattamento sanitario
obbligatorio la psichiatria non corre rischi e la società dei
benpensanti può continuare
a ritenersi sicura.
IV
In una cultura in cui lo scopo dell'individuo non è migliorarsi
dal punto di vista
intellettuale o etico, o dal punto di vista della conoscenza, o della
creatività,
o della profondità interiore, ma il fine è essere al di sopra
degli altri nella gerarchia sociale con tutti i mezzi a disposizione (a
volte legali, a volte no), c'è bisogno
di qualcuno da disprezzare.
Ci sono le mode ricorrenti che possono essere gli ebrei, i negri, oppure
i brigatisti
o i drogati, però ci vogliono anche strati di popolazione
perennemente squalificati
come, ad esempio, i ricoverati psichiatrici o gli indiziati della
psichiatria.
L'ultimo dei cittadini può sempre dire, anche se la cosa non ha
alcun senso: "Però
io sono normale", e sentirsi così qualcuno.
Allora ci vuole qualcun altro a cui dare la colpa di tutti i propri mali
legati
alle disarmonie e ai disagi della società.
I potenti della politica sanno benissimo (come Hitler) quale può
essere l'utilità
di questi pregiudizi per il mantenimento del proprio potere autoritario36.
In società come queste i funzionari, sia tecnici che amministrativi,
insieme alla
schiera monotona dei loro dipendenti, ripetono la caratteristica
mentalità del personaggio
Gogoliano de "Le Anime Morte" Pavel Ivanovic Cicikov.
Lascio la parola direttamente a Gògol:
Manìlov finì di smarrirsi. Egli sentiva che qualche cosa
doveva fare, porre qualche
domanda: ma quale domanda - il diavolo lo sapeva.
Finì, alle strette, che sbuffò di nuovo il fumo, ma questa
volta non più dalla bocca,
bensì dagli orifizi nasali.
--E così, se non c'è nulla in contrario, si potrebbe, a Dio
piacendo, passare alla
stipulazione dell'atto di vendita-- disse Cicikov.
--Ma come, un atto di vendita d'anime morte?
--Ah, niente affatto! - disse Cicikov - Noi scriveremo che sono persone
vive, come
figura effettivamente nella lista di censimento.
Io mi sono fatto la regola di non derogare mai in nulla dalla
legalità; benché per
questo, nella mia carriera di funzionario, abbia passato guai, poco
importa: il dovere,
per me, è una cosa sacrosanta; la legge - io ammutolisco dinanzi
alla legge. Quest'ultime parole piacquero a Manìlov, ma nel nocciolo
della questione non riuscì tuttavia
a penetrarci più che tanto: e, invece di dare una risposta, si mise
a succhiare il
suo bocchino così di forza, che quello cominciò, alla fine, a
rantolare come un contrabbasso.
V
Nessun valore e nessuna qualità sono mai riusciti a sottrarsi
alle insidie dei
pregiudizi.
A Vienna si diceva che Beethoven fosse seminfermo di mente perché
criticava le
autorità a voce alta nei locali pubblici, non apprezzava le divise
militari, era
diffidente, viveva solitario. Così pare che l'autore del quartetto
opera 132 avesse
il cervello un po' difettoso...
Robert Schumann, dopo il tentativo di suicidio, fu costretto a morire in
manicomio.
La stessa fine fu imposta a Hugo Wolf.
Sulla pazzia di Vincent Van Gogh sono state scritte pagine intere su
libri molto
qualificati. E anche per Van Gogh ci fu l'internamento. E si potrebbe
continuare
a lungo con molti altri esempi.
Però non serve.
A noi ci basta caso mai domandarci se non sarebbe utile per la
conoscenza della
psicologia dell'uomo cominciare a ragionare in termini diversi.
Come preludio alla civiltà dei lager e di Hiroshima scriveva Franz
Kafka (che resterà
probabilmente lo scrittore più grande del nostro secolo):
Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui, nessuno
verrà ad aiutarmi; se fosse imposto
come compito di darmi aiuto, tutte le porte di tutte le case resterebbero
chiuse,
tutti giacerebbero a letto, le coltri tirate sopra la testa, tutta la terra
un albergo
notturno. Con ragione, poiché nessuno sa della mia esistenza, e se
lo sapessero non
saprebbero la mia dimora, e se sapessero la mia dimora non saprebbero come
trattenermici,
non saprebbero come venirmi in aiuto. Il pensiero di volermi venire in
aiuto è una
malattia da curarsi stando a letto.
Lo so e quindi non grido per invocare aiuto, anche se in certi momenti -
indomito
come sono, per esempio appunto ora - ci pensi fortemente. Ma a scacciar
questi pensieri
basta che mi guardi intorno e mi renda conto del luogo ove sono e dove -
questo posso ben affermarlo - io abito da secoli.
(11 cacciatore gracco
da "Il messaggio dell'imperatore"
Frassinelli p. 38)37.
Non si deve dimenticare che Kafka, prima di morire, voleva bruciare tutta
la sua opera.
Nell'anno mille si meditava su la fine del mondo in termini religiosi,
forse consapevoli
della fragilità della specie di fronte ad alcune catastrofi della
natura come la
fame o la peste. Ora, mille anni dopo, l'uomo copernicano riflette sulla
fine della
specie come opera propria
La solitudine e l'individualismo degli esistenzialisti in conflitto con
l'ottimismo
storicistico di Hegel o di Benedetto Croce (quest'ultimo pensava che il
fascismo
fosse solo una parentesi) ha anche appunto questo significato di
riflessione sulle
possibilità della morte collettiva.
Karl Jaspers, ad esempio, segue e sviluppa questi temi in saggi come
"La norma del
giorno e la passione per la notte", "L'essere nel
naufragio", e i brani di riflessione
sulla morte e sul suicidio come situazioni-limite nell'esserci e come ponte
verso
la trascendenza.
Come psichiatra e come libero docente in psicologia Karl Jaspers nella
"Psicopatologia
generale", pubblicata nel 1913, servendosi del metodo fenomenologico
di Edmund Husserl,
considera la psicopatologia come parte della psicologia. Professore di
filosofia
all'università di Heidelberg fu esonerato dall'insegnamento nel 1937
per la sua opposizione
al nazismo.
Così a me sembra che la cultura filosofica e politica di Jaspers
travalichi i limiti
della sua preparazione di psichiatra.
Infatti il suo saggio sulla vita di Van Gogh appare, a mio giudizio,
estremamente
contraddittorio33.
Scriveva Vincent Van Gogh nella sua ultima lettera incompiuta al fratello
Theo, che
fu scritta il 27 luglio 1890, il giorno in cui il pittore si sparò
un colpo di pistola,
e che gli fu trovata addosso dopo la sua morte:
(Auvers-sur-Oise, 27-7-1890)
Mio caro fratello,
grazie della tua cara lettera e del biglietto di 50 fr. che conteneva.
Vorrei scriverti
a proposito di tante cose, ma ne sento l'inutilità. Spero che avrai
trovato quei
signori ben disposti nei tuoi riguardi.
Che tu mi rassicuri sulla tranquillità della tua vita familiare
non valeva la pena;
credo di aver visto il lato buono come il suo rovescio--e del resto sono
d'accordo
che tirar su un marmocchio in un appartamento al quarto piano è una
grossa schiavitù
sia per te che per Jo. Poiché va tutto bene, che è ciò
che conta, perché dovrei insistere
su cose di minima importanza? In fede mia, prima che ci sia la
possibilità di chiacchierare
di affari a mente più serena passerà molto tempo. Ecco
l'unica cosa che in questo momento ti posso dire, e questo da parte mia
l'ho constatato con un certo spavento
e non l'ho ancora superato. Ma per ora non c'è altro. Gli altri
pittori checché ne
pensino, si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio
attuale.
E poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.
Eppure, mio caro fratello, c'è questo che ti ho sempre detto e
che ti ripeto ancora
una volta con tutta la serietà che può provenire DA UN
PENSIERO COSTANTEMENTE TESO
A CERCARE DI FARE IL MEGLIO POSSIBILE, te lo ripeto ancora che ti ho sempre
considerato
qualcosa di più di un semplice mercante di Corot,
e che tu per mezzo mio hai partecipato alla produzione stessa di alcuni
quadri, che,
pur nel fallimento totale conservano la loro serenità. Perché
siamo a questo punto,
e questo è tutto o per lo meno la cosa principale che io possa dirti
in un momento
di crisi relativa. In un momento in cui le cose fra i mercanti di quadri di
artisti morti
e di artisti vivi sono molto tese.
Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si
è consumata per
metà - e va bene - ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per
quanto ne sappia,
e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti realmente con
umanità.
Ma che cosa vuoi mai?.
Si racconta che Kafka, prima di morire per la sua tubercolosi polmonare,
disse
al medico invitandolo ad affrettare la sua morte: "Mi uccida,
altrimenti è un assassino".
Van Gogh aveva affrontato con piena partecipazione personale i problemi
dell'uomo
del nostro tempo e, per riprendere le sue parole, la sua ragione vi si era
consumata
per metà.
Poiché, com'è logico, i suoi costumi uscivano fuori
continuamente dalle regole
del conformismo e della mediocrità, già il padre dell'artista
nel 1882, e ottanta
cittadini di Arles in una petizione al sindaco nel 1889, chiedevano il suo
internamento
in manicomio.
Però se non desta meraviglia che dei piccoli borghesi
conservatori si scandalizzassero
di fronte alla personalità di Van Gogh, più problematico e
più discutibile appare
il giudizio di un uomo come Jaspers.
Scrive il filosofo:
"Che Van Gogh soffrisse di un processo psicotico è fuor di
dubbio.
Ci si chiederà soltanto di che tipo fosse questo processo, quale
sia la diagnosi.
Trovo infondata la diagnosi di epilessia formulata dai medici di Van
Gogh, perché
mancano gli attacchi epilettici e la demenza caratteristica di questa
malattia. Può
trattarsi unicamente di schizofrenia o di paralisi generale; quest'ultima
non si
può escludere con certezza perché l'occasione di una
infezione sifilitica si deve essere
presentata spesso nella vita di Van Gogh. La paralisi è dimostrabile
solo a partire
da sintomi fisiologici, e noi non ne abbiamo notizia.
L'unica cosa che potrebbe suggerirla è il carattere caotico di
certe tele dell'ultimo
periodo e un accenno del pittore all'instabilità della mano.
Il mantenimento del senso critico e della disciplina attraverso due anni di
violente
crisi psicotiche è estremamente improbabile nel caso di una
paralisi, nella schizofrenia
sarebbe insolito, ma possibile. Mi sembra dunque più verosimile che
si tratti di
schizofrenia.
Lo psichiatra, per scrupolo deve richiamare l'attenzione su una lieve
possibilità
di dubbio che non esiste a proposito di Holderlin o di Strindberg. Il
suicidio di
Van Gogh ci priva di quella eventuale certezza che l'evoluzione ulteriore
della sua
vita avrebbe potuto darci".
Jaspers dunque prende in considerazione tre possibili ipotesi
diagnostiche. La
prima sarebbe una diagnosi neurologica, secondo le indicazioni dei medici
di Van
Gogh, che attribuirebbe all'artista una sindrome di tipo epilettico.
Però - come
dice lo stesso Jaspers - mancano gli attacchi epilettici. E mancherebbe
anche quella che Jaspers
definisce in modo tutt'altro che chiaro, "la demenza caratteristica di
questa malattia".
La seconda ipotesi diagnostica è ancora una ipotesi neurologica
di paralisi generale,
che secondo Jaspers non è dimostrabile non essendo presenti, secondo
quanto sappiamo,
i sintomi caratteristici di questa malattia infettiva.
Poiché la sifilide allo stadio di infezione cerebrale compromette le
funzioni della
vita di relazione Jaspers nota giustamente che in Van Gogh il senso critico
e le
capacità di vita di relazione sono intatti come del resto abbiamo
visto nella sua
ultima lettera al fratello Theo che abbiamo citato.
Rimane in fondo l'ultima ipotesi diagnostica, che non è
più, come le prime due,
una ipotesi neurologica, ma è la schizofrenia, un giudizio
psichiatrico.
Però Jaspers, e questo va detto a suo vantaggio, appare
terribilmente incerto: "Il
mantenimento del senso critico e della disciplina... nella schizofrenia
sarebbe insolito,
ma possibile".
Infatti in definitiva, come si è visto, nella schizofrenia
è possibile tutto e
nulla, secondo i pregiudizi di chi formula la diagnosi.
Ricordo dai miei studi universitari che il Gozzano diceva: "Lo
schizofrenico è
capace di tutto, perfino di comportarsi bene".
In ogni modo, nonostante le sue incertezze, Jaspers dichiara, come si
è visto,
che è fuor di dubbio che Van Gogh soffrisse di un processo psicotico.
L'aggettivo psicotico deriva dal sostantivo psicosi.
Secondo R. A. Hunter e I. Macalpine, il termine di psicosi è
stato introdotto nel
1845 da Feuchtersleben nel suo manuale di psicologia medica" (Lehrbuch
der arztlichen
Seelenkunde) per designare la malattia mentale (Seelenkrankheit), mentre
nevrosi
si riferisce alle affezioni del sistema nervoso di cui solo alcune possono
tradursi nei
sintomi di una psicosi.
Il termine è composto dalla parola "psiche", che
significa in greco "anima" e che
deriva dal termine indoeuropeo "psychein" che significa
"soffiare", e dal suffisso
medico "osi"39.
Il suffisso medico "ose" in tedesco e "osi" in
italiano viene usato nei trattati
di patologia per indicare le degenerazioni delle cellule, degli organi e
dei tessuti.
Applicato arbitrariamente alla psicologia (psicosi, nevrosi) è un
modo di esprimersi,
non solo generico, ma quello che più conta diminutivo per non dire
dispregiativo
nei riguardi delle persone a cui queste definizioni vengono attribuite.
In termini più popolari si usano anche le espressioni
"degenerato" e "pervertito"
specialmente nei casi in cui ci si riferisce ai problemi della
sessualità.
Per il tradizionale significato di "degenerato" riprendo da F.
Rinuccini che scrive
"moralmente pervertito"; e dal Dizionario moderno di A. Panzini
del 1905 dove è scritto:
"di questa voce oggi molto si usa ed abusa per indicare coloro i quali
per abitudini, gusti, qualità morali e fisiche, ereditarie o
acquisite, si allontanano dallo
stato normale fisiologico, sano, e tendono a forme squilibrate, pervertite
e anormali
del vivere individuale e sociale".
Sigmund Freud nei "Tre saggi sulla teoria della
sessualità" basa appunto la sua
ricerca sulla distinzione tra attività sessuali normali e
attività sessuali anormali,
precludendosi così a mio parere uno studio effettivo del problema.40
Anche in Freud, che pure ha intuito e descritto molti aspetti profondi della problematica
sessuale, la distinzione tra normale e anormale, sano e patologico
(naturalmente
riferita alla vita interiore e al comportamento dell'uomo), è una
esclusiva derivazione dei pregiudizi moralistici.
La conoscenza della sessualità comincerà a prendere forma
soltanto dopo con le
opere di Wilhelm Reich41 e con gli studi successivi di alcune esperte degli
Stati
Uniti collegate col movimento femminista americano, e, più o meno
direttamente, col
pensiero di Thomas Szasz42.
Ritornando un momento, dopo questa divagazione filologica e scientifica,
al significato
etico e sociale di Van Gogh e della sua opera, riporto qui alcune
annotazioni interessanti
sull'artista da "l'Enciclopedia dell'Arte Tumminelli"
dell"Istituto Editoriale Europeo" alla voce Van Gogh: "...
Innamoratosi (1873) della figlia della sua
padrona di casa a Londra, ne venne respinto e lo scacco e la delusione
provati lo
spinsero a ricercare una consolazione nello studio della Bibbia.
Ossessionato da
questa vocazione religiosa, nel 1877 decise di avviarsi agli studi
teologici per diventare pastore
protestante come suo padre; poi, per alcuni mesi, si dedicò
all'apostolato sociale
(1878) tra i minatori del Borinage, in Belgio. Infine nel 1880 decise di
dedicarsi
alla pittura, vedendo in essa il mezzo per realizzare anche la sua
vocazione religiosa
e umanitaria. Ebbe così inizio la sua attività di pittore
solitario, anticonformista...".
"... Nelle sue tele esplodono ora la luce e il colore: ricorrendo alle
tecniche più
varie, Van Gogh fissa i caratteri essenziali degli uomini e dei paesaggi in
colori
contrastanti o in accordi imprevisti, in contorni calcolati, incisivi nella
voluta
deformazione, quasi per mettere a nudo l'essenza più intima della
realtà".
Kafka, nell'esprimere gli stessi problemi, scriveva nei "Diari":
"L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualche
cosa di indistruttibile
dentro di lui. Credere significa liberare l'indistruttibile dentro di
sé o, meglio,
essere indistruttibile o, meglio, essere"43.
Il 29 luglio 1890 Van Gogh moriva, a 37 anni di età, e "il
30, sotto un sole implacabile,
si svolgono i funerali, con qualche difficoltà dovuta al fatto che
il prete cattolico
di Auvers si rifiuta di benedire la salma e di fornire il carro funebre
perché il defunto è un suicida".
Dal "Campo di grano con corvi" l'ultimo dei suoi paesaggi
sembra che gli uccelli
neri escano fuori dal quadro per volare verso il nostro secolo.