Lettera da un istituto psichiatrico
I miei giorni sono passati via più leggermente che la spola del
tessitore e sono venuti
meno senza speranza.
Dal libro di Giobbe
Il ghetto di Dachau era più pulito, all'esterno aveva un aspetto
perfino piacevole
a vedersi, poteva sembrare una serra dove si coltivano i fiori più
rari che vengono
da paesi lontani, certamente non stonava tra i boschi profondi di
quell'antica regione
della Germania: si trattava di una criminalità di stato amministrata
con responsabilità
e con discrezione secondo i criteri aziendali più moderni.
A
Dachau le vittime sparivano in silenzio, "il cammino della storia ha
bisogno di uomini
donne e bambini che rinunciano", ma tutto ciò deve avvenire
senza clamore: i dirigenti
lavoratori dell'ordine nuovo, gli uomini sani onesti buoni fedeli devono
procedere sicuri, senza nessun turbamento.
Ma la mia storia non finisce a Dachau: fui liberato dopo dieci anni di
detenzione,
ero un prigioniero politico con una condanna a scadenza: nel '43 il
conflitto era
nel momento più critico e più violento, la Germania di Hitler
cominciava a prevedere
la sua fine.
Io ormai non avevo più nessuno, a trentatré anni mi
trovavo completamente solo
in un mondo che secondo me, in mezzo alle sue disgustose violenze e ai suoi
avvenimenti
insensati, non aveva nessuna prospettiva, nessun futuro.
Non parlo della Germania di Hitler, né dei disastri e delle
ingiustizie della mia
vita personale, piuttosto queste esperienze disperate mi avevano convinto
che quello
era soltanto l'inizio di un mondo che avrebbe fatto dell'eccidio e della
discriminazione la sua caratteristica più rilevante, anzi la sua
regola e il suo significato, se
di significato si può parlare--questo dunque era quel "mondo
dei fini", di cui mi
aveva parlato mio padre, studioso di Kant, prima che l'uccidessero mediante
impiccagione
perché politicamente sospetto.
Anzi, i miei primi anni erano stati felici in un ambiente culturale
effimero (e
ora mi rendo conto falso) ma apparentemente ricco di valori, tra la solida
saggezza
di Goethe e la profondità riflessiva delle Cantate chiarissime e
belle (anche se
un po' misteriose) di Giovanni Sebastiano Bach, quasi il nume tutelare
della nostra famiglia,
come di molte famiglie di ingenui e forse un po' ipocriti piccoli borghesi
della
Germania.
Non vale trastullarsi con la grandezza dei poeti e con la dialettica dei
filosofi
quando il crimine e il sopruso continuano a essere padroni del mondo.
Ma tornando alla mia storia più recente, quando uscii da Dachau
fui mandato nelle
truppe di punta operanti in Italia come soldato specialista, nel pericoloso
settore
dei guastatori. Ne ero quasi contento, speravo di morire, speravo di essere
annullato,
non volevo niente, ma quello che volevo meno di tutto era il ritorno a
casa, non avevo
paura delle mine, né dei mitra, né delle esecuzioni sommarie,
né dei carri armati
che passavano diritti sulla carne viva dei miei compagni di violenza e di
morte,
quello che più mi faceva paura, quello che trovavo insopportabile,
quello che trovavo intollerabile
e disgustoso era il ritorno, il ritorno a quella che sarebbe stata
ipocritamente
definita una nuova vita normale. Ma nonostante le azioni più audaci,
nonostante i momenti più pericolosi (molti come me facevano di tutto
per essere uccisi), nonostante
il furore che avevo dentro di me per dileguarmi e sparire, nonostante tutto
ti dico
caddi prigioniero e la mia vita fu salva: e quanti ne ho visti che volevano
vivere
e cadevano subito alla prima azione nei modi più assurdi e ridicoli,
magari sparati
alle spalle per errore dai loro compagni di squadra o uccisi da un tiro corto della
nostra artiglieria!
Ma queste sono inezie, t'assicuro sono inezie nella vita d'un uomo!
L'essenziale è da un'altra parte, magari nelle pagine ingiallite di
un trattato di
filosofia, di un libro di Hegel gelosamente custodito in una preziosa
biblioteca
di Heidelberg!
Ho cominciato col dirti che il ghetto di Dachau era più pulito e
se vuoi era anche
più logico, più pulito e più logico dell'insensato
cortile di cemento dove sono ormai
segregato e dimenticato da più di vent'anni.
Qui nessuno dei miei compagni parla se non da solo, qui molti si salvano
seguendo
le vie innumerevoli e meravigliose dell'immaginazione (i nostri guardiani
ci chiamano
deliranti), qui chi non crea continuamente mondi immaginari come i poeti
più fantasiosi, prima o dopo cerca di sfuggire ai guardiani per
raggiungere i binari della ferrovia,
per spezzettarsi sotto il treno, unica via di scampo.
A Dachau era possibile uccidersi o farsi ammazzare, qui riesce di rado.
Qui non sei più nessuno, qui non puoi decidere più nulla.
Qui dentro nella tua
ultima ricerca disperata di un significato sia pure illusorio della tua
indescrivibile
condizione umana sei considerato senza cervello e ti sorvegliano di
continuo anche
al gabinetto, e se parli ridono e ti sputano addosso con un disprezzo e con
una ottusità
che anche noi che abbiamo provato tutto stentiamo a sopportare.
Purtroppo durante la prigionia in un campo americano nelle vicinanze di
Napoli,
io avevo tentato di sparire, ma il colpo di pistola di cui mi ero servito
mi attraversò
la bocca e il collo senza uccidermi.
Così sono qui dentro e ci resto, ho passato anni interi immobile
in cella o in
un angolo del cortile, ho ripercorso tutta la mia vita passata, ho udito di
nuovo
le promesse di felicità di Goethe e di Bach, ho riascoltato la voce
chiara e serena
di mio padre acceso di entusiasmo per il ragionare pacato e penetrante di
Immanuel Kant e
degli Illuministi, ho rivissuto sussultando la violenza dei Lager e dei
campi di
battaglia, ho sognato spesso i boschi profondi e i larghi fiumi della mia
terra d'origine,
ho parlato e mi sono agitato da solo perché ormai nessuno mi si
rivolgeva più se non
per insultarmi, ma tutto questo ti assicuro non vale niente, non serve a
nessuno,
e se mi offrissero di uscire mi rifiuterei, non tornerei per nessuna
ragione in un
mondo che sopravvive soltanto per nascondersi la sua disumanità e il
suo non senso, preferisco
restare qui più vero più genuino più autentico
perché ormai inchiodato nella mia
lucidità e nella mia immutabile disperazione.
Dicono che sono dissociato perché non mi associo più
all'ipocrisia del mondo -
non vedo il vestito dell'Imperatore anche se non c'è -, dicono che
sono un delirio
di disastro perché una volta ho gridato che Hitler non era nessuno
se non un modesto
precursore, dicono che c'è un'ombra inspiegabile che d'improvviso si
è impadronita della
mia mente.
Sembrano molto compassati e tranquilli - sono i custodi dell'ordine,
sono i custodi
e i guardiani della verità e della saggezza - ma diventano feroci e
spaventosamente
agitati ogni volta che qualcuno di noi tenta ancora di dire qualcosa, di
parlare,
di spiegarsi, di mescolarsi con loro.
Una volta sono stato in camicia di forza per un mese di seguito, non me
la toglievano
neanche per i pasti, e mangiavo per terra acchiappando il cibo con la bocca
e strisciando
nel cortile come una biscia--e tutto questo perché avevo avuto
l'imprudenza di dire a una suora sorvegliante che la croce di Cristo
è una truffa e che gli Apostoli
forse avevano capito che la morte di Gesù non era servita a niente.
Ricordi Federico Nietzsche, ricordi gli Apostoli che si domandano
davanti al corpo
torturato e ucciso del Maestro `'Chi era costui? Che cos'era costui? Cosa voleva?".
Forse te ne ricordi, forse no. Ma non importa. Piuttosto sai dirmi tu
che cos'è
questa saggezza che per sopravvivere ha bisogno di asservire o di uccidere
milioni
di persone? Piuttosto sai dare una risposta a questa vita normale che ha
attraversato
Auschwitz e Treblinka, e che è passata su Stalingrado, su Dresda, su
Hiroshima, su Nagasaki?
Non ascoltare le mie domande, dimenticami, dimenticami, dimenticami
presto e continua
a seguire la via della saggezza, ch'è più sicura, che
è più serena, forse è falsa
come dico io, forse mi sbaglio, ma sicuramente in quella direzione potrai
illuderti
di vivere, magari di una vita artificiale, magari di un'esistenza finta
come quella
dei burattini che saltano sotto i fili nei piccoli teatri di periferia
delle grandi
e delle piccole città di quel mondo che io ho rifiutato e che per
non mettersi in
discussione mi ha confinato dietro le mura gialle sporche e assolate di
questo squallido
istituto di pena47.